Morti sul lavoro contemporaneo
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Morti sul lavoro contemporaneo

Morti sul lavoro contemporaneo

Da qualche tempo mi trovo a riflettere sulla pressione mortale che ricade sulla nostra generazione. Risale a febbraio la notizia del suicidio del ragazzo trentenne e della sua lettera. Sfogliando i giornali, fiumi di critiche al sistema-Paese Italia, “spiegoni” sull’assenza di politiche di inserimento nel mercato del lavoro, e poco altro (salvo qualche eccezione che ha il colore della perla rara). Vale, invece, la pena di chiedersi se il problema sia più ampio. Se il tentativo di alzare l’asticella fino all’inverosimile, intaccando in maniera sistematica, programmata l’autostima di chi non raggiunge gli standard elevatissimi di qualità inventati e spacciati come autoevidenti, rischi di compromettere la sanità mentale di una generazione intera. 

Il mondo deve progredire, questo è sacrosanto. «He who does not want the world to change, does not want it to remain at all», l’esergo della mia tesi di laurea. Parlo di progresso in senso aritmetico, senza considerazioni assiologiche: la procreazione assistita è progresso o regresso? Se si attribuisce a “progresso” una connotazione valoriale, ognuno risponderà a modo suo; se gli si conferisce un significato neutro, appunto aritmetico, si può trattare la PMA come un pezzettino in più che si aggiunge alla storia del lineare avanzamento umano nelle scienze e nella tecnica.

Il mondo deve progredire, ma progredisce lo stesso senza le classifiche dei giovani più influenti della storia, senza che l’assunzione nelle aziende si trasformi nella caccia ai migliori talenti del globo (provate a dare un’occhiata a una qualsiasi società di consulenza, per esempio), senza articoli sulla ragazza che a 25 anni ha fatto già dieci stage in dieci nazioni diverse: la sua esperienza è davvero qualcosa da esaltare? Bisogna fare così tanto e in maniera, talvolta, così poco coerente e convulsiva (“purché si faccia cv”) per essere apprezzati al giorno d’oggi? Si badi, l’articolo non esalta un percorso professionale specifico, magari effettivamente encomiabile, ma il numero di stage e il numero Stati in cui gli stage sono stati svolti. E davvero passare un po’ di tempo con la propria famiglia, senza «cambiare il mondo» per 10 giorni, ha acquisito un costo opportunità così elevato? Sia chiaro, non sono innocente né salva. Ci siamo tutti dentro. Credo però possa far bene ogni tanto guardarsi dall’esterno e chiedersi se le pratiche discorsive in cui si è immersi vadano bene così, oppure no.

Il tema è centrale, perché la sanità mentale delle prossime generazioni è a rischio. Non sono catastrofista, lo sto semplicemente osservando. Lo osservo tra i banchi dell’università, ora che mi trovo «dall’altra parte» della cattedra, e quegli scomodissimi banchi in cui ho passato cinque anni della mia vita li osservo con occhio clinico, quasi guardando loro possa capire meglio le passioni, aspirazioni e ansie della me stessa universitaria. Ora, la mia è un’università che più di altre ha intercettato e saputo interpretare la sete di progresso, internazionalizzazione, interconnessione con gli attori del mercato del lavoro. Posso dire non tanto con orgoglio ma con semplice senso della realtà, che quest’università è un modello da imitare anziché demonizzare, e che le università italiane fuori dal tempo farebbero meglio a rientrarci nel tempo, dato che il mercato universitario, che ormai è completamente internazionale, sarà senza esagerazione uno dei settori più redditizi negli anni avvenire. Per la serie: se prima non si badava a spese per la cerimonia nuziale, nei prossimi anni non si baderà più a spese per l’educazione.  

Ma è anche tra le università con un elevato tasso di stress tra gli studenti. E secondo me, quando ce lo dissero indorarono pure la pillola. Volendo chiamare le cose con il loro nome: molti studenti sono depressi. Perché temono di non essere i migliori talenti della Terra. L’esser bravi si trasforma in mediocrità, persino l’essere estremamente bravi può diventare fonte di frustrazione se non si è comunque primi o top 1% in classe. Quindi, in sintesi ci state proponendo un mondo in cui restare indietro è la norma. Ci sono i NEET che rimangono indietro, ancora peggio coloro che cercano lavoro e non lo trovano, coloro che sono bravi ma non i primi della classe, e la depressione non risparmia neppure i primissimi che possono non raggiungere l’agognata eccellenza «assoluta», che è modello cui anelare ma raggiungibile solo in termini asintotici. 

Non è facile interpretare quanto sta accadendo. Eppure mi sembra che da quando si è introdotto il modello competitivo in campo economico, e questo è stato trasposto in tutti i campi della conoscenza, si è arrivati al paradosso della pressione mortale di cui parlavo in apertura. Giornalisti, recruiters, esperti in comunicazione, professori, trainer, etc. non sono gli artefici di quanto sta accadendo, sono semplicemente sensibili alle esigenze del mercato e dei consumatori-utenti. Bisognerebbe indagare più a fondo e capire chi e perché ha prodotto questi fatali cambiamenti nel mondo attuale. Questo qualcuno ha infatti operato su due variabili: la prima è la scelta della componente professionale come componente centrale nella realizzazione della persona. Ciò non è affatto scontato nelle società contemporanee, eppure nel mondo occidentale più che altrove, si assiste a una simile trasfigurazione della autopercezione di sé fino alla completa, totale, identificazione del proprio essere con ciò che si fa. Una graduale ma inesorabile professionalizzazione della vita, ed esaltazione del lavoro come elemento che racchiude ed esaurisce il valore della persona, con effetti talvolta nefasti (testimoniati dai numerosi studi che legano il tasso di aumento dei suicidi alla disoccupazione e alla crisi economica). 

Seconda variabile: ecco che tra le mille strade che si possono intraprendere, all’interno di quella che si sceglie diventa fondamentale seguire delle regole di condotta per raggiungere un modello astratto di «eccellenza». Pur essendo la nostra generazione traboccante di talenti e di giovani incredibili, volenterosi, e pieni di inventiva, e pur essendo questi codici di condotta seguiti alla lettera, ecco che un pugno di persone riusciranno a percepirsi come parte di quell’élite di eccellenti. E i restanti soccomberanno, più spesso nello spirito, i più fragili nella carne. Proprio come nel “Il soccombente” di Bernhard, dove si narra il travaglio interiore dei due giovani compagni di studio di Glenn Gould, che, dopo aver sentito suonare da Gould le Variazioni Goldberg di Bach, non riusciranno più a reggere il confronto, andando il primo incontro alla morte (autoprocuratasi), il secondo a una profonda depressione.    

Non possiamo permetterci di sprecare questo capitale umano. Non possiamo permetterci un esercito di depressi, di persone che faticano a riconoscere il proprio valore, perché distanti dai modelli di eccellenza che si propagandano quotidianamente. Non possiamo permetterci di avere sulla coscienza morti come quelle di Michele e di Mark Fisher: 

«Mark Fisher soffriva di depressione, lo ha sempre raccontato con grande coraggio, facendone un punto dirimente dellanalisi politica. In questo lucido, toccante testo, riflette di sè stesso e sulle cause politiche e sociali della depressione, riconducibili a forme di oppressione di classe (ma anche di razza o di genere) esercitate dal potere. Riflette sul capestro della perfomatività (puoi essere ciò che vuoi, se lo vuoi), sul “volontarismo magico” che scarica sul singolo la responsabilità del proprio insuccesso. Riflette sulla depressione collettiva “deliberatamente coltivata dal potere”. Morti come la sua sono, dunque, morti sul lavoro contemporaneo» (l’intera storia è disponibile qui: http://effimera.org/buono-nulla-good-for-nothing-mark-fisher/)

 iMille.org – Direttore Raoul Minetti

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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