La verità, vi prego, sulla scuola: appello di un insegnante contro le chiacchiere da talk show e i proclami pasionari.
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La verità, vi prego, sulla scuola: appello di un insegnante contro le chiacchiere da talk show e i proclami pasionari.

La verità, vi prego, sulla scuola: appello di un insegnante contro le chiacchiere da talk show e i proclami pasionari.

di Francesco Rocchi.

Sulla scuola quest’anno c’è stato un ampio impegno da parte dei nostri editorialisti ed intellettuali, ma nonostante i toni allarmati delle polemiche, bisogna francamente dire che gli argomenti, anche stavolta, sono rimasti gli stessi di sempre.

Come insegnante, trovo che i contributi di Ernesto Galli della Loggia o Corrado Augias o altri come loro siano stati praticamente nulli. Augias pontifica perché s’è fatto raccontare la scuola da qualche amico (che gli racconta bugie), Della Loggia non si è mai avvicinato a meno di qualche chilometro da una scuola ma pensa di sapere che effetto farebbero le pedane in classe. D’altra parte non riesco a ritrovarmi neanche in interventi ideologici di sinistra come quelli di Raimo, che rimpiange di non poter fare lezione dal ponte della Potemkin. E’ vero che questo è il Paese in cui si strologa su ogni cosa a prescindere, ma alla fine tutto questo chiacchiericcio risulta fastidioso.

La domanda che mi faccio quindi è la seguente: perché tutti quegli anodini (e trasversali) luoghi comuni hanno tanto successo e tanta fatica fanno a contrastarli quelli che invece vorrebbero fare della scuola qualcosa di meno pittoresco, ma più utile ed efficiente?

E’ su questo che mi voglio concentrare. Confesso che la mia idea è quasi conciliatoria, o terzista: mi sembra che si possa ritrovare una base di buon senso comune tra tutti quelli che hanno un sincero interesse per la scuola italiana, innovatori o conservatori che siano, e da lì forse cominciare a costruire qualcosa. E’ possibile pure che io sia troppo ottimista, perché a volte la superficialità con cui si parla di istruzione è imbarazzante (e forse questo mio disappunto è inavvertitamente già emerso), ma provare a chiarirsi un po’ le idee non è una brutta idea. Non pretendo di esaurire il discorso, vorrei solo fornire qualche prospettiva. Un buon punto di partenza è quel quel che potremmo definire il “rigore”. Il rigore è rimpianto ed evocato dai conservatori, ma fa arricciare il naso ai pedagogisti. In realtà, è una questione di punti di vista.

Il rigorista ha la prospettiva del maestro di bottega: l’arte che il maestro possiede, ed insegna ai suoi allievi, deve produrre dei risultati all’altezza delle aspettative, non lavoretti abborracciati: a costo di essere severi, il rigore è tutt’uno con il controllo della qualità. E ciò è tanto più vero se ai nostri allievi diamo un diploma, o un certificato, sul quale mettiamo la nostra faccia. E’ anche da questo che  discende il diffuso favore per la bocciatura: se non sei tagliato, è inutile perdere tempo o, peggio ancora, fare finta che tu abbia imparato qualcosa e regalarti un pezzo di carta.

Alcuni tra i pedagogisti considererebbero con sdegno questa argomentazione, e soprattutto la sua conclusione: i risultati scolastici dipendono spesso da una serie di condizioni ambientali che sfuggono al controllo di uno studente, quali il reddito familiare, l’accesso a buoni servizi, la presenza di libri in casa, ecc. ecc. Quello che i conservatori chiamano rigore, appare in questa prospettiva come una truffa, una gara truccata: chi non ha risorse da investire nell’istruzione è perdente in partenza.

Quando si arriva a questo punto, la discussione generalmente svirgola e parte per la tangente: da una parte la sinistra che accusa i neoliberisti di essere sadici fautori di una bocciatura classista, dall’altra i conservatori che se la pigliano col ’68 e i sei politici. I mass media amano questo agone e se ne inebriano ogni volta che possono. Qui, almeno finché questo articolo lo scrivo io, eviteremo accuratamente di scendere ai livelli di un mediocre talk show.

A costo di essere scontati, ripartiamo qui da un concetto che nella sua ovvietà può almeno essere condiviso da tutti quanti: l’istruzione è un diritto universale. A volte interpretiamo quasi romanticamente questo diritto, quasi fosse una questione “intima” o personale, ma in realtà ha un risvolto sociale importante: una persona non istruita non è autonoma, non trova lavoro, non sa gestire le proprie cose, non sa affrontare le difficoltà che gli si parano di fronte e finisce per dipendere dall’aiuto delle persone intorno, in primo luogo per un sostegno economico.

Da questo discende che, al di là di titoli e diplomi, più una persona impara e meglio è. Che ciò avvenga in maniera formale (in scuole che producono diplomi e certificati) o con apprendistato, corsi o esperienze formative, il dato fondamentale è che imparare si deve, continuamente. Chi sa una cosa in più se la caverà sempre meglio di chi sa una cosa in meno. E’ pacifico, no?

Bene, se questa è la prospettiva, la questione del “rigore” contrapposto all'”inclusione” comincia a modificarsi. Il “rigore” inteso come impegno e dedizione rimane invariato, mentre  l'”inclusione” comincia a delinearsi in maniera più chiara: non è una concessione caritatevole, ma un investimento necessario. Anche qui è facile che il discorso deragli. Nessuno sostiene che i titoli di studio vadano regalati a risarcimento di una vita difficile, ma questa è un’accusa che i “conservatori” rivolgono spesso ai “progressisti”, soprattutto quando questi propongono di abolire la bocciatura: “Volete il sei politico!”.

E’ possibile che qualcuno in giro ancora creda ancora nel sei politico, ma si tratta di residuati bellici che pesano poco o nulla nel dibattito pubblico. Quel che più spesso capita è che ci si concentri su un dato di fatto incontrovertibile (l’inutilità della bocciatura al fine di innalzare i livelli di apprendimento generali) ma poi non si propongano misure capaci di evitare promozioni al limite del falso ideologico. Posso citare ad esempio questo articolo de Linkiesta (link), in cui i dati sull’inefficienza sulla bocciatura sono tutti verissimi, ma il rimedio proposto è quello che si era già rivelato tragicamente fallimentare al tempo dell’abolizione degli esami di riparazione (ministro D’Onofrio, governo Berlusconi): l’attivazione di corsi di recupero in sostituzione della rimandatura non fece altro che certificare recuperi largamente inesistenti.

Se questa è la situazione, qualcuno potrebbe dire che sì, possiamo definire meglio questo e quello, ragionare e precisare tutto quel che si vuole,  ma alla fine che bisogna fare con uno studente che va male a scuola? Promuoverlo o bocciarlo?
Ecco, la domanda è mal posta. Ed è mal posta per una ragione precisa: siamo ridotti a questa dicotomia perché la scuola italiana, da sempre, anche da prima di Gentile, conosce soltanto queste due marce: avanti tutta o indietro tutta. Le scuole italiane sono come tribunali che o assolvono o condannano a morte, nient’altro.

Quanto sia scomoda questa situazione lo sanno bene i docenti. Da un lato hanno di fronte studenti che spesso nella loro materia non hanno combinato niente di niente anche dopo il recupero estivo (per le ragioni più varie e spesso umanamente comprensibili, ma in ogni caso niente). Dall’altra vedono bene che bocciare una persona perché va male in due o tre materie su dieci o più è un provvedimento evidentemente sproporzionato. Il male della bocciatura peraltro nasce proprio di là: facendo ripetere anche le materie che non presentano problemi, la bocciatura, invece di essere un rimedio, si trasforma in una punizione moralista, il cui effetto non è di farti migliorare nelle materie in cui vai male, ma di umiliarti in quelle in cui vai bene. Perché uno studente, per il fatto di non aver capito la trigonometria, deve ristudiare Foscolo e Leopardi? Qualcuno può davvero difendere una scelta del genere?

A dire il vero, sì, qualcuno lo fa. Però senza argomenti, se non aneddotici: tutti quanti conosciamo qualche studente immaturo cui il buffettone della bocciatura tutto sommato può aver fatto bene (o il fatto di essere stato spostato in una classe più tranquilla, cosa che però è già molto diversa), però rimane il fatto che tra gli studenti bocciati quasi nessuno diventa uno studente migliore e, anzi, in genere i bocciati finiscono per abbandonare la scuola.Non mi sembra né incongruo né ideologico chiedere di tener conto di un concreto fatto statistico ampiamente studiato e acclarato. Già lo ha fatto il gruppo di Firenze, che pur essendo da sempre strenuo difensore del “rigore” ha di fatto sposato la proposta di Condorcet (link) di eliminare le bocciature tombali e passare a quelle “per materia“, quindi direi che non sto chiedendo un grosso sforzo.

Nel momento in cui usciamo dalla dicotomia ed entriamo nel merito della questione, ovvero come razionalizzare e massimizzare gli sforzi per ottenere studenti bravi e preparati, si vede bene che il castello di carte che vediamo sui mass media cade giù e perde ogni interesse. Bisogna stare attenti, però: quel castello di carte non si limitava a porre una falsa dicotomia: vi annetteva anche una serie di banalizzazioni che saldavano a principi considivibili (la salvaguardia della qualità o dell’inclusione) altre considerazioni del tutto sbagliate. Esemplare è il caso della predella di Ernesto Galli della Loggia citato all’inizio. Ma veramente qualcuno crede che uno studente si comporti meglio perché il professore sta su un rialzo di 15 cm? O che imparerà più storia e matematica perché si è alzato all’entrata del docente? Ma qualcuno ci crede davvero? Messa così, questa e altre proposte consimili fanno ridere. Ma c’è anche qui un’insidia più sottile. Sulla “disciplina” a scuola c’è uno scontro ideologico non meno violento che sulla bocciatura. Vediamo di uscire dalle nebbie anche su questo punto.

In generale la domanda che avvia il dibattito è quella da cui parte anche Alex Corlazzoli in un suo articolo del 2017, “Il castigo è educativo?”. La risposta di Corlazzoli è no, quella dei conservatori è sì. E su questo ci si scanna, con varia aneddotica, riferimenti scientifici, ecc. ecc. Pur rischiando l’immodestia, vorrei dire che, ancora una volta, stiamo sbagliando su entrambi i fronti.

Quando Corlazzoli, riassumendo credo correttamente un’importante corrente di pensiero, dice che le punizioni non renderanno migliore il comportamento di uno studente, probabilmente ha ragione. Checché ne dicano i mass media, gli esseri umani non sono argilla facilmente plasmabile. Ottenere dei cambiamenti significativi nel comportamento degli individui è un lavoro difficilissimo, se non impossibile: nessuno cambia perché qualcuno gli dice di farlo e il timore della punizione può far cambiare un comportamento soltanto sul breve termine (far star zitto chi faceva confusione, tenere seduto al banco chi aveva voglia di andare a spasso).

Quelli che ricordano con nostalgia la severità del babbo nei gloriosi tempi passati tendono a dimenticare che finché sono stati soggetti alla severità paterna si sono comunque sempre comportati  come gli pareva, continuando a infrangere le disposizioni paterne con inalterata allegria. “Ah, adesso capisco la severità di mio padre” è un altro loro refrain, ma non si accorgono che se la severità paterna fosse servita a qualcosa, loro l’avrebbero dovuta capire quando avevano quindici anni, non quaranta. Quindi ha ragione Corlazzoli? Non proprio. Se concordo con lui sugli scarsi effetti a lungo termine della severità, devo ribadire che come insegnante a me interessano molto anche quelli a breve termine. Se è vero che con un castigo avvilente come far scrivere 100 volte una certa frase forse non renderò migliore lo studente reo, è vero anche che nell’immediato la minaccia mi permette di riguadagnare in classe la tranquillità necessaria per andare avanti con la lezione o con le più varie attività che io stia portando avanti, nessuna delle quali trae alcun giovamento dal caos incontrollato.

E il caos nelle nostre classi è effettivamente un problema che noi docenti sentiamo moltissimo, e sul quale riceviamo spesso risposte insufficienti. Una prima risposta, peraltro impeccabilmente giusta in sé, è che nel nostro lavoro le doti di relazione sono importanti e bisogna saper gestire l’emotività. Questo piccolo vademecum (link) di Orizzonte Scuola, oltre ad essere di molto buon senso, lascia intravedere qual è lo spirito giusto. Il problema è che non è detto che basti: quando si ha a che fare con centinaia di studenti, la possibilità di trovarsi di fronte a situazioni estreme è concreta, soprattutto nelle scuole di frontiera. Né si può essere tutti charmant come romanticamente propone Recalcati, un altro la cui massima competenza viene dal fatto di essere stato studente di liceo.

Si può pensare che lo svolgimento regolare delle lezioni possa aspettare il lento ed incerto percorso di maturazione degli studenti difficili? Purtroppo no, ma da questo punto di vista le scuole italiane hanno pochi strumenti. Note, punizioni, anche le sospensioni lasciano il tempo che trovano, e più le si usa più perdono di significato. A fronte di quest’impotenza, la reazione “conservatrice”, nonché di molti insegnanti, è chiara: rabbia e frustrazione. L’aspetto educativo è lento e di là di venire, la deterrenza è sfumata e per di più ci si sente colpevolizzati per non aver gestito la situazione con saggezza relazionale (anche se talvolta in classe c’è gente che davvero non sa entrare in relazione con gli studenti, anche quelli non problematici). Che si fa? Alziamo la predella? Amplificare le punizioni fino a far recuperare loro un potere deterrente sembrerebbe avere senso, ma che bisognerebbe fare? Crocifiggere gli studenti in sala mensa? E quale ambiente costruiremmo a scuola? Forse sfogheremmo la nostra rabbia, ma renderemmo ben lugubri le nostre scuole.

Le punizioni non devono essere terrorizzanti, devono essere efficaci (“Patti chiari e amicizia lunga”, direbbero i conservatori). Personalmente ho proposto a suo tempo un approccio scolastico (link) che non solo cerchi di stimolare positivamente i comportamenti corretti con attività coinvolgenti (sport, teatro, cinema, ecc.) ma preveda anche un sistema, adeguatamente calibrato, di vere e proprie multe: il comportamento scorretto è un danno che va risarcito (non necessariamente, ma nel caso anche con denaro). In questo modo si crea la deterrenza, ma lo scopo è la riparazione del danno, non l’emendazione coatta dell’animo del reo.

Oltre a questo, dovremmo anche immaginare una scuola che abbia al suo interno delle figure in grado di affiancare i docenti nel lavoro relazionale: ogni scuola dovrebbe avere il suo psicologo e il suo assistente sociale presente in pianta stabile, ben addentro alla vita scolastica e capace di intervenire tempestivamente, evitando ai docenti di diventare immancabilmente il parafulmine del disagio studentesco. Oggi la scuola è un meccanismo estremamente rozzo: promozione o bocciatura, estrema severità o lassismo, bisogna sempre scegliere tra una serie molto ridotta di possibilità. Non sarebbe una deroga dalla serietà prendere atto del fatto che per garantire a tutti una scuola rigorosa e di qualità serve una squadra di professionisti articolata e compentente, con strumenti più variati e raffinati. Non è un approccio che ci permetterebbe di uscire dalle secche delle contrapposizioni frontali?

Questo vale anche per la didattica, dove ancora una volta (e tre!) siamo di fronte ad una dicotomia stucchevole: nozionismo d’antan o spensierata creatività a briglia sciolta? Solo sui nostri giornali e nelle nostre tv non sembra esserci spazio per altro, con denunce o difese appassionate della lezione frontale.

Io sarei grato a chiunque la smettesse di parlarmi di quanto è superata la lezione frontale. Davvero, non la uso granché, ma a volte è semplicemente il metodo più semplice e diretto di trasferire informazioni. Piuttosto, facciamo una domanda più sensata: come posso fare a far sì che i miei studenti si creino un bagaglio di conoscenze valido e funzionale? La lezione frontale è perfettamente ammissibile e la continueremo ad usare tutte le volte che sarà necessario. Ma perché essere ostili anche ad altre forme di didattica?

All’inizio della mia carriera spiegavo un argomento, assegnavo le pagine da studiare sul quel dato argomento e la volta successiva interrogavo. Ora spesso faccio anche in un altro modo: prendiamo il libro di testo, faccio leggere in classe quelle stesse pagine che avrei assegnato per casa, chiedo ai ragazzi di riassumerle (oralmente o per iscritto, per punti o discorsivamente), e insieme risolviamo le difficoltà incontrate o apriamo finestre di approfondimento. Nella lezione successiva, l’interrogazione la facciamo per iscritto, oppure  la rimando alla volta successiva ancora e facciamo un’esercitazione. Se si tratta di letteratura, ad esempio, porto loro dei testi sconosciuti da analizzare in classe, per iscritto, sulla base di quanto imparato il giorno prima. Così mi seguono tutti, vedo le loro difficoltà, posso passare di banco in banco, non assisto a scene mute se non in casi assai particolari e i ragazzi non rimangono mai inerti. Sono un pericoloso descolarizzatore per il fatto di usare questa ed altre tecniche? O non sarà che semplicemente ho provato a vedere cosa funzionava e cosa no? Ecco, se magari potessi confrontarmi con qualcuno sulla didattica a scuola, tutto sarebbe più semplice, ma nelle nostre scuole manco questo è possibile, se non alle elementari.

Ecco, con questo credo di aver prodotto una fin troppo lunga summa di almeno tre punti critici su cui la discussione finisce sempre per impelagarsi inutilmente. Spero di aver suggerito qualche spunto utile.

 

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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