Bibbiano, per fatto personale
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Bibbiano, per fatto personale

Bibbiano, per fatto personale

di Corrado Truffi.

Sull’ignobile uso politico dell’indagine sui presunti abusi sugli affidi ai minori a Bibbiano non credo ci sia molto di aggiungere a quanto già scritto da altri, e spero che la denuncia per calunnie a quello squallido individuo che è malauguratamente il nostro ministro dello sviluppo e del lavoro lo costringa a cacciare prima o poi una bella cifra per risarcire dei danni morali non solo il PD ma un po’ tutti noi. Perché non c’è dubbio che a lui – e a quelli che assieme a lui hanno orchestrato la campagna mediatica contro l’incolpevole (almeno dei presunti abusi) sindaco Andrea Carletti – del benessere di quei bambini non importa un bel niente. Esattamente come non gli importava niente dei risparmiatori di Banca Etruria, o del prezzo dei sacchetti di mater-bi, o di qualunque altro argomento con cui hanno alimentato l’odio politico di cui sono maestri indiscussi.

Tuttavia, ci sono due motivi, fra loro legati, che mi spingono a provare ad approfondire questa vicenda e a parlarne. Il primo è del tutto personale. Ho passato tutte le estati della mia infanzia a Bibbiano, a casa dei miei nonni. Mio nonno è stato il primo sindaco di Bibbiano dopo la liberazione, e fondatore della cooperativa. Mia madre è nata in quel paese e a Bibbiano è cresciuta, ha fatto la staffetta partigiana, e, dopo gli anni a Novara e a Roma, è tornata spesso a raccontare le sue storie ai bambini e ai ragazzi del paese, grazie alle iniziative utili e belle sulla memoria organizzate proprio dal sindaco Carletti, quello oggi additato come mostro che pratica elettroshock sui minori, e che io invece conosco come persona di grande impegno civico. Mio zio è stato anche lui sindaco per due mandati nel paese, anni fa, e la buona amministrazione, il welfare attento, e anche l’attenzione ad evitare le infiltrazioni mafiose nel paese, provengono anche da lui.
Il secondo motivo è che tutta questa vicenda di affidi e difficoltà familiari incrocia una montagna di questioni sui cui non sono solito riflettere, data la mia formazione attenta all’economia più che al sociale e alla psicologia, ma che cominciano a sembrarmi davvero importanti. E sulle quali proverò a mettere in fila un po’ di osservazioni.
Prima di tutto, sgombriamo il campo dagli equivoci. A prescindere da possibili responsabilità penali di singoli, che eventualmente saranno dimostrate dalle indagini, e anche se emergesse che qualcuno ha davvero “rubato” bambini per lucro, resta la realtà che il lavoro di assistenti e psicologi chiamati a scrutare le difficoltà familiari e a decidere l’affido dei bimbi è un lavoro maledettamente difficile e complicato, dove è facile e probabilmente normale sbagliare, e dove si è inevitabilmente tirati fra due estremi che è difficile governare: voler togliere il bambino da una situazione potenzialmente pericolosa, e al tempo stesso non voler toglierlo dal suo ambiente e dai suoi genitori naturali.
L’ipocrisia sparsa a piene mani contro “il sistema” dei servizi sociali, peraltro, è doppiamente ipocrita se si pensa alle tante volte nelle quali la cronaca ci ha messo di fronte a bimbi finiti male per colpa dei genitori. E a quanti, in quelle occasioni, hanno magari lamentato l’assenza dello stato e dei servizi sociali.

Ma il problema che mi sembra dovrebbe essere affrontato è molto più generale. Siamo sicuri che il modello di welfare che continuiamo ad utilizzare sia adeguato alle trasformazioni della società e della famiglia? In fondo, tutto è stato pensato all’epoca dell’affermazione del modello della famiglia mononucleare ed è questo il modello probabilmente ancora prevalente. Ma non è significativa l’ossessione dei vari family day a sottolineare sempre che la famiglia è fatta da un padre e una madre, quando spesso le famiglie sono fatte di storie molto più complesse, frammentate e contraddittorie? E siamo attrezzati a trovare luoghi e modi per aiutare davvero a vivere bene queste “famiglie” in vario modo anomale? C’è stato un tempo nel quale molti rifiutavano anche ideologicamente il modello di famiglia dato, per ricerca della libertà. Quando ero ragazzo negli anni settanta attorno a me la ribellione verso i padri, incrociando il femminismo e l’ansia di rivoluzione, portava a fughe, sperimentazioni di confuse comuni, ricerca di spazi fuori dalle convenzioni, di spesso patetiche e impossibili “coppie aperte”, e per questo anche di tanta tristezza e tante disillusioni. Tutto ciò non ha portato quasi a nulla, mi sembra di poter dire sconsolato, se non un modo più spiccio di affrontare l’amore che mi sembra di intravedere nelle generazioni attuali. Nel discorso mainstream, si è tornati molto presto a considerare come normale un solo modello, sottacendo che se qualcosa in quel modello non funzionava, non si vede per quale motivo il solo scorrere del tempo dovesse essere in grado di ripristinarlo esattamente come era vissuto un tempo.Anche se in realtà, il modo di costruire le relazioni affettive sta cambiando in modo radicale e spesso incomprensibile.

Proviamo a schematizzare. Per un certo periodo la famiglia patriarcale, diciamo di tipo contadino, ha convissuto con l’affermarsi nella piccola e media borghesia cittadina della famiglia mononucleare. Erano però tempi in cui c’era solo il divorzio all’italiana, e sopravviverà nella nostra legislazione perfino il delitto d’onore. Tempi di orfanotrofi, non certo di affidi e di case famiglia.I tempi della mia giovinezza, gli anni settanta, hanno trasformato radicalmente questo paesaggio. Divorzio, aborto, diritti delle donne, consultori, nuovo diritto di famiglia sono probabilmente i risultati più grandi di quella stagione, ottenuti mentre molti pensavano alla rivoluzione politica. Anni di piombo e rivoluzione politica fallita, niente nascita dell’uomo nuovo, ma l’ansia di una famiglia nuova, di un modo diverso di stare insieme, quella qualche effetto l’ha portato.
Con il classico pragmatismo emiliano, i servizi sociali si sono organizzati per gestire al meglio questa trasformazione. E parallelamente, anche il mondo cattolico ha immaginato una risposta alla “nuova famiglia”. Al sud, quasi il deserto di risposta pubblica, probabilmente qualcosa da parte cattolica. Al nord, una rete integrata di supporto, aiuto, affidi, case famiglie, perché in questo rivolgimento dei modelli familiari non poteva che emergere, oltre a maggiore libertà e a volte maggiore felicità, anche miriadi di problemi, di coppie scoppiate, di bambini odiati da genitori sbalestrati, di sofferenza e abuso. E pragmatismo laico e solidarietà cattolica, con le loro pur evidenti differenze di approccio, hanno probabilmente lavorato nei fatti assieme. Gli uni con l’idea di aiutare gli individui, gli altri con l’ossessione di ricostruire ogni volta che fosse possibile, l’ideale della famiglia – la sacra famiglia, nucleo fondante della società.
L’idea comune è che la società debba farsi carico delle difficoltà dei suoi membri e, per farlo, ha diritto di stabilire regole e comportamenti, di definire cosa è lecito e di valutare. E’ accettata, oggi, questa idea?

Forse, uno degli aspetti più inquietanti della polemica su Bibbiano che unisce in un coro unanime Salvini, Di Maio e Meloni, è nell’assunto di fondo che traspare dal loro berciare: lo stato, i servizi sociali, la società, non hanno il diritto di intromettersi nella (sacra?) indipendenza di ogni “famiglia”. Che lascino in pace e libero ciascuno di farsi i fatti propri, perché ogni intrusione è per definizione sbagliata. Che ciascuno si faccia i fatti propri, si difenda da solo, sia libero – e sia solo.

Leggo che il mondo cattolico è preoccupato per questa deriva, prova a difendere il modello – che in molti paesi ci invidiano – delle case famiglia e il meccanismo solidaristico degli affidi temporanei. Hanno sicuramente ragione a preoccuparsi e a combattere, anche se non sono affatto sicuro che il modello che hanno in testa, ricostruire la famiglia ideale ogni volta che sia possibile, sia credibile. Bisognerebbe trovare un modo nuovo di stare insieme, un modo nel quale una nuova tolleranza riesca a far convivere davvero modi e identità e modelli diversi.
Ma, davvero, non so bene come. Però mi resta una convinzione. Anche in un mondo futuro nel quale ci siano mille modelli diversi di “famiglia” – ammesso che il termine possa continuare ad avere senso – e mille modi diversi di amare, il mantenimento di un qualche legame sociale fra le persone, insomma la costruzione, ricostruzione e “manutenzione” della società e della sua organizzazione “politica”, è e resterà indispensabile. Mentre questo odio verso le strutture del sociale, sparso a piene mani da questi nostri imprenditori della paura, è fatto apposta per spezzare sempre più quel legame sociale.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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