Il successo del populismo: capirne le motivazioni e i contenuti
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Il successo del populismo: capirne le motivazioni e i contenuti

Il successo del populismo: capirne le motivazioni e i contenuti

di Corrado Truffi.

Perché il populismo ha grande successo? Vorrei provare a capirne le motivazioni partendo dalle idee, dai contenuti, evitando quindi gli argomenti che fanno riferimento a fattori sociologici o economici o alla considerazione della potenza mediatica e dell’efficacia della propaganda populista e della diffusione delle fake news. Anche perché gli argomenti economici, sociologici legati alle fake news mi sembrano, in fondo, scuse per assolverci delle nostre sconfitte, con un atteggiamento perfino vagamente complottista. Al contrario, analizzare le idee dei populisti ci sfida ad entrare nel merito e a capire se, per caso, non ci sia una quota di ragioni dalla loro parte, e non sia a causa di qualche torto nella visione del mondo che noi “globalisti” propugniamo che i populisti hanno oggi un grande successo.
Per entrare nel mondo delle idee populiste, il modo migliore è sfruttare l’eccezionale intervista che Giuliano Da Empoli ha fatto a Steve Bannon, certamente il più coerente ideologo dell’internazionale nazionalista. Vediamo, passo dopo passo, se e come confutare le sue osservazioni, quali sono gli eventuali punti deboli dei suoi ragionamenti, e quali i nostri errori di visione, spesso messi in luce proprio dai paradossi del nostro eroe. Insomma, proviamo a rispondere a Bannon.
“Per la prima volta, i due terzi degli elettori italiani sostengono attivamente un movimento populista che ha saputo fare tre cose. Ha unito il sud e il nord. Ha combinato la destra e la sinistra. Ha messo insieme i populisti e i nazionalisti. In pratica qui è riuscito quello che a noi negli Stati Uniti non è riuscito, unire Donald Trump e Bernie Sanders”
La prima affermazione che analizziamo è di tipo strettamente politico: qui si afferma che il successo del populismo è legato alla distruzione del tradizionale asse destra/sinistra e alla sua sostituzione con l’asse globalisti/nazionalisti, con i globalisti in ritirata. Ci sono due elementi di forzatura nel ragionamento: in primo luogo, appiattire Bernie Sanders sul populismo grillino è molto semplicistico, perché Sanders mantiene molto del classico armamentario della vecchia sinistra, mentre i 5s hanno solo utilizzato efficacemente un vago sentiment di sinistra ed ecologista, ma sono squisitamente e direttamente populisti a-ideologici, come sta ampiamente dimostrando l’esperienza di governo e come attentamente documentato da Iacoboni nel suo libro. In secondo luogo, si propone una rappresentazione mono dimensionale dei “globalisti”, come se un liberista, ad esempio un repubblicano medio pre-Trump, fosse sovrapponibile a un socialdemocratico o a un verde tedesco.
E tuttavia l’affermazione di posizionamento politico ha una sua evidente efficacia, e infatti dall’altra parte si parla di “fronte repubblicano”, e tutto il dibattito è schiacciato proprio sul binomio apertura/chiusura, come se immaginare una globalizzazione diversa – per fare il nostalgico, il “governo mondiale” di cui parlava Berlinguer -fosse ormai impossibile: o si è élite mondialista, oppure si sta con il popolo vessato. Ecco, finché saremo schiacciati su questa alternativa secca, l’agenda della discussione continueranno a farla i populisti e Bannon avrà vinto.

“È questa mentalità il problema. L’Italia è la sesta o settima potenza industriale del mondo, un paese ricco. La gente non vi presta i soldi per fare la carità, si aspettano dei ritorni. Per questo penso che sia giusta la linea di Salvini e Di Maio: non dovreste andare dai banchieri centrali con il cappello in mano. L’Italia ha il potenziale per essere un’economia dinamica, in forte crescita. Ecco perché ci vuole la flat tax, per creare opportunità e dare una ragione ai ragazzi che scappano all’estero per rimanere.
“Bisogna cambiare la mentalità. Il partito di Davos e le élite finanziarie sono quelle che hanno causato la crisi finanziaria del 2008, creando armi di distruzione economica di massa, delle quali non padroneggiavano neppure la complessità. Da allora i banchieri centrali hanno inondato il mondo di liquidità per salvare i loro simili, ma non hanno fatto nulla per la gente normale. Ecco perché è arrivato il momento di riprendere in mano il vostro destino. [….] L’Italia è l’unico paese al mondo dove la gente comune parla dello spread! Ma sono i banchieri centrali che vi hanno messo in testa un meme, per farvi il lavaggio del cervello! Io vengo da Goldman Sachs, sono un capitalista, non dico che si debba essere irresponsabili. Ma chi è stato irresponsabile e chi ha avuto un bail-out dopo la crisi finanziaria? Loro, i banchieri che l’hanno provocata! Il peso delle tasse per le persone normali in Italia è schiacciante. E ora avete un sistema di welfare che deve sopportare i costi dell’immigrazione di massa, voluta dalle stesse élite per tenere basso il costo del lavoro! Sa perché gli italiani sono arrabbiati? Perché sono razionali. Questa rivolta ha una base perfettamente razionale. Ci vorranno molti anni per uscire dal cratere provocato dall’implosione della crisi finanziaria del 2008. Almeno con gente come la Lega e i Cinque stelle ora avete forze politiche che considerano il popolo come la loro base, e non i tecnocrati di Bruxelles”.

Qui c’è il cuore della teoria economica populista, che ha nella sua semplicità una forza argomentativa a cui è abbastanza problematico replicare. Come negare che ci sia stata nella crisi del 2008 una preponderante responsabilità delle élite finanziarie? Senza bisogno di scomodare il “partito di Davos” o i “tecnocrati di Bruxelles”, un modo tipico di personalizzare e alludere a complotti che usano i populisti, chiunque abbia analizzato la crisi non ha potuto evitare di vederne le origini nell’eccesso di finanziarizzazione dell’economia, di concentrazione della ricchezza, di costruzione di un mondo nel quale per sostenere i consumi di una classe media con redditi da lavoro in difficoltà, si è alimentato a dismisura il debito privato. Anni fa, proprio all’esplodere della crisi dei 2007/2008, scrissi con Filippo Zuliani qui su iMille un articolo che fece un po’ arrabbiare il nostro direttore ma che, temo, riletto adesso, mantiene una certa validità, proprio perché sosteneva che questa crisi aveva una delle sue spiegazioni nell’eccesso di concentrazione del reddito e quindi nella difficoltà della domanda, sostenuta quindi dal debito. L’altra spiegazione, per noi allora la più importante, era legata alla crisi energetica e alla riduzione dell’EROI delle fonti fossili.
Ecco: la teoria economica populista è di una superficialità disarmante: non tenta nemmeno di spiegare il meccanismo della crisi, addossando semplicemente la colpa a due fattori: la finanza cattiva (che in Europa assume la forma dell’euro) e l’uso di quello che in altri tempi si sarebbe chiamato “esercito industriale di riserva”, ora interpretato dalle masse dei lavoratori del terzo mondo e dei migranti, allo scopo di comprimere i costi del lavoro. Il problema è che questa spiegazione, se non si è capaci di alzare un po’ lo sguardo oltre il nostro particolare di occidente ricco, è semplice da capire e contiene una piccola, distorta parte di verità. Basta abolire dal nostro sguardo il diritto a una vita migliore dei popoli dei paesi emergenti, ed ecco che l’idea che la chiusura dei mercati, i dazi, la “sovranità”, appaiono come la soluzione ai nostri problemi. Quello che non riusciamo a spiegare, perché ci mancano le parole e, soprattutto, la credibilità distrutta tanto dalla propaganda quanto, in parte, dai nostri errori, è che si tratta di una soluzione totalmente sbagliata. E invece dovremmo provarci, con pazienza, a smascherare la fallacia dell’idea di chiusura e sovranità monetaria. Per farlo, però, non basta fare un trito riferimento alla suprema efficienza del libero mercato, o ai vantaggi della moneta unica. Ti diranno che il libero mercato ha consentito di svalutare il valore del lavoro, e che la moneta unica è la spiegazione del calo della nostra produttività (seguite i commenti a questo tweet di Lorenzo Bini Smaghi e vi farete un’idea). Si tratterebbe invece di ammettere che il libero mercato così com’è non è la soluzione, così come chiudersi è ridicolo, in un paese senza materie prime e senza leadership tecnologica se non in pochissimi settori. Di dire ad esempio che i dazi non risolvono, ma politiche anti dumping sociale sono ragionevoli. Serve il fair trade e non il chilometro zero.

“I media non hanno capito ciò che è accaduto durante la vostra campagna elettorale. Quel che è successo è che due movimenti basati sulla rete, la Lega e il M5s, hanno coinvolto i giovani in un modo che non vedevo da tempo, che non ho visto neppure nella campagna di Trump. E li hanno coinvolti sulla base di grandi idee. Tutti quelli che pensano che i millennial siano refrattari alla politica dovrebbero guardare le elezioni italiane del 2018. I concetti di cittadinanza, di quale debba essere la relazione dell’individuo con lo stato, di cosa significhi sovranità, del ruolo della moneta, sono stati al centro della campagna elettorale di marzo e i media tradizionali non se ne sono neppure accorti. Ecco quel che mi piace dei Cinque stelle, questo modo di usare internet per coinvolgere le persone.” 
Partecipazione, politica, media tradizionali e Internet, grande questione di questa nuova epoca. Qui Bannon dice una cosa verissima, assieme ad una tragicamente falsa. Verissimo che i media tradizionali, e anche i politici tradizionali inclusi i più relativamente nuovi come Matteo Renzi, non si sono accorti davvero dei contenuti “politici” che viaggiano in rete e del senso comune lontanissimo dagli argomenti mainstream che si stava formando in moltissime persone, totalmente sconnesse dal discorso politico che passa sui media. Tragicamente falso è che questo discorso “politico” sia una riflessione di alto livello su cittadinanza, sovranità, moneta. Purtroppo, è solo un coacervo di idee semplici, complottismo, confusione e falsi sapientemente diffusi, dai quali non abbiamo saputo né difenderci né trovare il modo di controbattere con altrettanta efficacia. La frammentazione dell’attenzione caratteristica dei nuovi media e dei dispositivi mobili, il declino della capacità di comprensione dei discorsi e dei testi complessi, l’aumento dell’analfabetismo funzionale, di cui abbiamo sistematicamente sottovalutato l’impatto, sono stati il brodo di coltura ideale per lo sviluppo di queste idee “politiche” semplici e apparentemente nuove.

“Se c’è una cosa che ammiro di Merkel e Macron è che non nascondono il loro programma. È importante che la gente capisca: non c’è alcun complotto! Tutto viene detto apertamente, alla luce del sole! Macron ha pronunciato un discorso un anno fa nel quale ha tratto le logiche conseguenze del progetto europeo, della visione di Jean Monnet. Molto in dettaglio e in modo del tutto coerente. È un disegno fatto di ulteriore integrazione politica, di ulteriore integrazione commerciale, di ulteriore integrazione dei mercati di capitali. In pratica si tratta degli Stati Uniti d’Europa, dove l’Italia diventa la Carolina del sud rispetto alla Francia che è la Carolina del nord, ok? Ora, se credi in questo, e ti piace, vuol dire che credi nel progetto di Macron. Salvini, Orbán, Marine Le Pen e le altre voci del movimento populista nazionalista dicono di no. Lo scontro è tutto qui, tra quelli che in Europa pensano che gli stati nazionali siano un ostacolo da superare e quelli che pensano che siano un gioiello da preservare”.

Da molti anni ci siamo abituati ad accettare supinamente la vulgata secondo cui l’Europa è essenzialmente una costruzione burocratica senza anima, attenta solo a dettare regole assurde e a gestire l’economia in chiave di austerità. Recentemente, nel tentativo di ricostruire un’immagine più positiva, si usa fare riferimento ai settant’anni di pace garantiti dall’Europa. Eppure, si tratta di un argomento probabilmente molto più debole di quanto a noi può sembrare: a prescindere dalla scarsa conoscenza della storia di gran parte del “popolo” cui ci si rivolge, c’è anche una oggettiva difficoltà a rendersi conto, concretamente, di cosa sono state davvero le due guerre mondiali. L’abitudine ad una situazione di pace e di relativo benessere rende difficilissimo, per chi non ha memorie familiari condivise, immaginare che tutti i discorsi sul riprendersi la propria sovranità nazionale potrebbero portare anche, per scivolamenti progressivi, al disastroso esito di un conflitto. Semplicemente, o non si conosce la storia o, se la si conosce, si crede che sia impossibile che si ripeta.

Per combattere il nazionalismo, occorre prima di tutto smontare l’idea che l’Europa sia, oggi e con gli attuali assetti, solo burocrazia e austerità. Far vedere cos’è l’Europa concretamente nella vita dei cittadini, e non solo citando l’ormai trito esempio dell’Erasmus (benedetto, per carità, ma ci sono cose anche più importanti, dalle regole ambientali a quelle sociali, che bisognerebbe ricordare). In secondo luogo, dopo aver ben chiarito che l’Europa che c’è è già adesso un’ottima cosa, nella quale i vantaggi sono superiori agli svantaggi, far capire che conviene andare avanti sulla strada della democrazia rappresentativa europea. Democrazia rappresentativa europea che dovrebbe significare, eventualmente solo per i Paesi che lo vogliono, legislazione del parlamento europeo e vero governo comune, con bilancio comune e tutto ciò che ne consegue. Passando, evidentemente, per partiti sovranazionali. Osare sull’Europa però significa smetterla con una certa retorica del tipo “Europa sì ma non così”, perché è stato anche concedendo in modo confuso troppo alla retorica anti europea che, progressivamente, quella retorica ha vinto.

“Le élite hanno detto alla gente che loro sapevano cosa fare e si sono limitate a gestire il declino e sa perché lo hanno fatto? Perché nella gestione del declino, il partito di Davos se la cava benissimo. C’è una statistica uscita ieri che dice che un decimo dell’1 per cento della popolazione mondiale controlla più beni del 99 per cento della popolazione mondiale. Si rende conto, un decimo dell’1 per cento! Non si può continuare così”.[…] E’ da lì che viene la rabbia, in Italia e in Ungheria come negli Stati Uniti. […] Io penso che sia ora di dare una mano all’uomo della strada, sulle cui spalle poggia il peso di tutto il sistema. […] È lui la spina dorsale della società civile, lui che tira su i figli, fa l’allenatore della squadra di calcio, va in chiesa, fa il suo lavoro, paga le tasse ed è un buon cittadino. A causa della crisi finanziaria e del fatto che i banchieri si sono salvati con i tassi d’interesse sotto zero, tutto questo è stato messo in discussione. Hanno minato i fondamenti del giudeo-cristianesimo: la famiglia modesta che fa il suo dovere, fa il suo lavoro e così facendo fa crescere la società. Prima funzionava così: uno risparmiava, metteva insieme i soldi per comprare una casa, ma oggi non vale più. Oggi se risparmi sei un idiota perché risparmiare costa soldi sul conto in banca. Il concetto stesso del buon padre di famiglia è stato distrutto e con lui la base della società civile”.

Questo punto è uno dei più interessanti e per certi versi originali dell’intervista, perché dice due cose molto efficaci e concrete: richiama l’idea della classe media impoverita dalla crisi e ne fornisce una versione che lega questo impoverimento ai tassi di interesse bassi e quindi all’impossibilità per il piccolo risparmiatore di far fruttare il proprio denaro. Mi è ritornato in mente il periodo d’oro dei “BOT people” degli anni 70 quando milioni di italiani investivano in BOT dai rendimenti altissimi (in gran parte illusoriamente, perché altissima era anche l’inflazione). La retorica del “buon padre di famiglia” a noi probabilmente pare insopportabile, e chiunque ricordi gli anni dei tassi di interesse e dell’inflazione alta ricorderà la critica di sinistra contro tale situazione che conviene ai creditori (quindi ai “ricchi”) e non certo ai debitori (quindi i “poveri”): inflazione e tassi alti visti come la peggiore tassa, la redistribuzione al contrario. Eppure in questo gioco di specchi nel quale ciascuno di noi è assieme consumatore e produttore, risparmiatore e debitore, e si vorrebbero quindi tassi bassi quando si chiede un prestito, e alti quando si mettono i soldi in banca, è fin troppo facile per Bannon richiamare un’età dell’oro fatta di famiglie tradizionali che lavorano duro, risparmiano e costruiscono il futuro della società. In fondo, non è molto diverso dal rimpianto per il periodo d’oro del “compromesso socialdemocratico” che caratterizza certe posizioni di sinistra, con l’unica differenza che in Bannon l’attenzione è tutta al singolo, e non al ruolo dello stato sociale.

Tassi di interesse ed inflazione sono meccanismi di redistribuzione del reddito, nel presente e anche nei confronti del futuro. È vero quindi che il potere autonomo delle banche centrali nel governare o per lo meno nell’indirizzare questi indicatori è un problema per la democrazia, nella misura in cui gli obiettivi assegnati dalla politica (quindi dal potere democratico) a queste istituzioni sono troppo vaghi o troppo rigidi. I vantaggi dell’autonomia delle banche centrali dai governi nell’aumentare la responsabilità necessaria ai governi nella gestione delle politiche fiscali, indubbi, dovrebbero essere in qualche modo associati alla possibilità di assegnare obiettivi “democraticamente” alle banche centrali, perché le scelte su tassi e obiettivi di inflazione non sono affatto neutrali. Su questo, i populisti hanno un argomento forte a loro disposizione, e tutta la vicenda di accordi oggettivamente autolesionisti come il fiscal compact sta lì a dimostrarlo, e spiega bene le difficoltà della sinistra riformista a “difendere le banche”.
Una traccia di risposta, specificamente europea, sta nel fatto che le politiche più efficaci e di successo nella difesa della “sovranità” dei popoli europei le hanno fatte proprio le “Istituzioni” europee. Si pensi alle politiche anti concentrazione, alle multe ai big del web, all’inizio di serie politiche anti elusione per le grandi corporation: tutte politiche possibili ed efficaci solo a livello europeo, proprio perché la dimensione del mercato europeo è tale da rendere credibili, esigibili ed efficaci tanto le multe quanto le regolazioni del mercato. Probabilmente, sono proprio le “regole” imposte agli stati (il fiscal compact) quando non esiste condivisione e non si affida la politica a una istituzione europea, a funzionare male. La regola è rigida, e in un mondo che cambia rapidamente, può invecchiare troppo in fretta. La riforma che serve all’Europa, per dare più potere alle persone è, paradossalmente, proprio quella di spostare competenze dagli stati (che devono rispettare le regole) alle istituzioni europee (che possono fare politiche flessibili).
Quanto al “buon padre di famiglia”, questo è davvero un riferimento regressivo a un modello di società atomistica e tradizionale, al quale è possibile rispondere rilanciando l’idea di comunità aperta, dove le famiglie (al plurale) siano connesse aperte e integrate, e dove il ruolo delle istituzioni dello stato sociale sia ben evidente ed attivo.

“Questa è anche la ragione per la quale sono convinto che convertiremo i millennial alla causa populista, non solo in Italia ma dappertutto. Perché sono vestiti meglio e hanno lo smartphone in tasca, ma per il resto sono servi della gleba, esattamente come nella Russia dell’ottocento. Un ragazzo di dodici anni oggi ha più informazioni dell’imperatore Adriano, ma la sua prospettiva di vita è quella di un proletario. Non possiede nulla e non possederà mai nulla. L’intera gig-economy è basata sul passare da un lavoretto all’altro, senza una carriera, senza neppure essere un artigiano ma solo una specie di nomade errante che passa da un basso salario all’altro”.

“Perché pensa che ci abbiano imposto l’immigrazione senza limiti? Perché vogliono più massa lavoro, in modo da non dover pagare la gente. Hey, sono un diplomato con lode della Harvard Business School, ho lavorato nel dipartimento fusioni e acquisizioni di Goldman Sachs: conosco l’aritmetica. Il punto è di far crescere i margini di profitto e i margini crescono se tieni bassi i salari. Il modo per ottenere questo risultato è spalancare le frontiere, avere un mercato del lavoro aperto a tutti. Quel che vogliono è la competizione senza limiti dei lavoratori, lo capisco. Ma non è così che si costruisce una società.”

Torniamo all’idea dell’”esercito industriale di riserva” di cui si è accennato più sopra. Qui la semplificazione un po’ bugiarda è evidente perché il mercato del lavoro nelle nostre società è segmentato, e gli immigrati fanno molto difficilmente concorrenza diretta alla manodopera italiana, ma rispondono in gran parte a una domanda di lavoro che non troverebbe offerta in Italia e in Europa. Senza scomodare il lavoro agricolo, basta pensare a colf e badanti. E basta riflettere all’emigrazione italiana verso l’estero, caratterizzata da una presenza molto alta di laureati che non trovano collocazione nel mercato del lavoro interno.
Però, ancora una volta è difficile negare che negli anni recenti ci sia stata una forte pressione sul lavoro e sui suoi costi, sia pur in gran parte a prescindere dal ruolo dei flussi migratori. La quota del reddito da lavoro va assottigliandosi in tutti i paesi occidentali, e più che la concorrenza diretta dei migranti, è certo il cambiamento nella divisione internazionale del lavoro, la rivoluzione tecnologica e la concorrenza della produzione industriale nei paesi emergenti ad essere in questione e a rendere difficile una equilibrata politica riformista. Riporto questo altro passaggio di Bannon:

“La guerra economica tra la Cina e l’occidente è in corso da venticinque anni, ecco perché una quota così rilevante della capacità manifatturiera europea e americana è finita in Asia. Tra l’altro le nostre élite lo hanno capito e ci hanno guadagnato, perché non gliene importava nulla dei lavoratori. Basti pensare a quello che è successo all’industria dell’abbigliamento in Italia. Eroicamente, nel corso dei primi due anni del suo mandato, Trump ha preso atto del fatto che i cinesi ci hanno dichiarato guerra dal punto di vista economico e che è ora di controbattere. […] Il suo progetto è di trasformare Giappone, Corea, paesi del Nafta (Usa, Messico, Canada) e Unione europea in un blocco che abbia la forza di riorientare la catena di produzione globale in un senso meno favorevole alla Cina.” 

Dunque, la risposta standard dei “liberisti” a questa posizione è che il libero mercato globale porta, alla fine del processo, a guadagni per tutti gli attori dello scambio, perché ciascuno si specializzerà nella produzione cui è vocato. Anche l’insistenza della sinistra europea di matrice riformista sulla ricerca e l’innovazione, la retorica sulla specializzazione sui prodotti ad alto valore aggiunto e di alta qualità e gamma si spiega nello stesso modo: dato che le produzioni a basso valore aggiunto si spostano nei paesi emergenti, noi possiamo continuare a vivere bene e a crescere se siamo capaci di fare altro e di fare meglio.
Bannon, e tutti i sovranisti, ci stanno invece dicendo che forse questo continuo spostamento “verso l’alto” è illusorio, perché anche la Cina lo sta facendo, e più rapidamente di noi. E soprattutto perché non tutti possono andare verso l’alto. Possiamo avere un intero popolo di laureati con master, ma difficilmente tutti, in una simile ipotesi, avrebbero un lavoro adeguato alla loro qualificazione.
Il problema, insomma, è reale, visto che è reale la competizione e gli squilibri che si generano nei cambiamenti nella divisione internazionale del lavoro, e sono reali i problemi posti dalla disoccupazione tecnologica. A livello globale, tutte le statistiche continuano ostinatamente a confermare che la situazione media della popolazione mondiale migliora, per reddito, per istruzione, per salute – e per di più con un mondo che riesce a sfamare una popolazione crescente, anche se fortunatamente a tassi via via minori. Ma le persone che sono coinvolte in processi di trasformazione troppo veloci e difficili da gestire, delle statistiche globali non sanno che farsene, e la risposta secondo la quale la soluzione è studiare di più, impegnarsi, essere talentuosi, raccogliere le sfide del mondo, è una risposta che è, purtroppo, diventata anche eticamente insopportabile. È un po’ come se i poveri di spirito, quelli con meno mezzi intellettuali – vuoi per svantaggi acquisiti dal contesto sociale, vuoi per minor talento o per una combinazione delle due cose – ci stessero dicendo che abbiamo proprio stufato con questa pretesa che tutti siano intelligenti, impegnati, studiosi. E per questo si affidano felici a personaggi che gli consentono una immediata identificazione, come il giovanotto senza arte né parte (Di Maio), o il buon padre di famiglia che si ingozza di pasta e difende i suoi contro il resto del mondo brutto e sporco e cattivo (Salvini).

Anche in questo caso, la soluzione sovranista è palesemente illusoria. Per quanto Bannon possa osannare il Trump dei dazi e della guerra commerciale alla Cina, l’idea di riportare in USA (o in Europa) produzioni di massa che per essere competitive devono avere costi del lavoro bassi è illusoria. Tanto più se si pensa che molte di quelle produzioni potrebbero essere probabilmente robotizzate. Paradossalmente, è probabile che certe produzioni restino affidate agli uomini solo perché sono realizzate in paesi a basso costo. Fossero spostate forzatamente in luoghi con costi medi del lavoro più alti, probabilmente sarebbero maggiormente automatizzate. In fondo, la soluzione proposta è sempre la stessa: tornare al mondo del passato, opportunamente idealizzato.
Il problema è che è una soluzione comprensibile, mentre quella della sinistra riformista non solo è diventata insopportabile per molti, ma è anche poco credibile visti i risultati. Le politiche riformiste di questi anni – penso a Obama, o ai governi o Renzi e Gentiloni – hanno ottenuto un po’ di crescita e non hanno peggiorato particolarmente la distribuzione del reddito (che, comunque, è pur sempre troppo sperequata per classi e per territori, sia negli USA, sia in Europa e in particolare in Italia). Ma non sono riuscite in alcun modo a rendere possibile un po’ di mobilità sociale. Probabilmente, il blocco pressoché totale dell’ascensore sociale, il fatto che di nuovo il figlio del povero sarà povero, il figlio dell’avvocato sarà avvocato, e così via, è la più grande sconfitta della sinistra e la principale spiegazione sia del successo dei sovranisti sia dell’inadeguatezza delle soluzioni di sinistra sia, infine e soprattutto, del fatto che è necessario prendere atto che il capitalismo odierno ha avuto una torsione direi “aristocratica” che bisogna trovare il modo di combattere con armi nuove.

“Sì, certo, la ragione per la quale abbiamo bisogno di un movimento populista mondiale è che il prossimo stadio è quello di un’élite tecnocratica che sta emergendo dalla convergenza tra l’intelligenza artificiale, i progressi nella fabbricazione dei microchip, la robotica e l’ingegneria genetica. Forse non nel corso della mia vita, ma certamente nel corso di quella dei millennial, dovremo prendere decisioni cruciali sul fronte del transumanismo. E non possiamo permettere alle mega-aziende tecnologiche di prenderle per noi. Io sono un conservatore, ma su questa materia penso che abbiamo bisogno di più regole. I dati sono un bene pubblico, non possono essere di proprietà esclusiva delle aziende. La gente dev’essere in condizione di scegliere quale uso vuole fare dei propri dati personali, fino a che punto condividerli o meno. La conseguenza è che bisognerà pagare per servizi come Facebook e io penso che sarebbe giusto, perché in cambio recupereremo il controllo dei nostri dati. L’alternativa è un futuro nel quale un’élite tecnocratica si impadronisce gratuitamente dei dati che ciascuno di noi genera di continuo nel corso della giornata, e li monetizza attraverso algoritmi che producono informazioni e servizi tagliati su misura. Un meccanismo del quale la gente è completamente all’oscuro. Per cui io credo che il dibattito vada spostato dal tema attuale, che punta semplicemente alla ghettizzazione della destra alternativa su Facebook e gli altri social media, per affrontare la vera questione di fondo. Che tipo di controllo pubblico è giusto esercitare su queste potentissime aziende tecnologiche? È il grande tema del futuro”.

Al netto della polemica furbetta sulla ghettizzazione della destra alternativa su Facebook, che visto quel che sappiamo su Cabridge Analytica e dintorni, è davvero insostenibile, qui gli argomenti di Bannon sono in realtà perfettamente condivisibili. Anche se, per quanto riguarda la questione del transumanesimo, almeno qui si limita alle premesse e non si intravede una soluzione. Ma è indubbio che c’è un problema enorme di concentrazione del potere sui dati in troppe poche mani e che questa cosa andrà cambiata. Però, varrebbe la pena di far notare a Bannon e a tutti i sovranisti e nazionalisti vari, che l’unica potenza che sta contrastando con qualche successo lo strapotere di Goggle, Facebook e compagnia, guarda che strano, è esattamente proprio l’Unione Europea, con le sue istituzioni anti trust, con le multe salate fatte pagare per le posizioni dominanti, con l’approvazione del GDPR che ha costretto quei colossi ad adeguarsi almeno un po’ a un maggior rispetto dei diritti degli utenti.
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Come ben si vede, rispondere a Bannon non è affatto facile. La visione populista è un efficace mix di ragionamenti in parte validi inseriti in una ragnatela di semplificazioni e di spiegazioni di comodo, oltre che di complottismo a buon mercato. Soprattutto, tutta la costruzione è affascinante e convincente per chiunque si senta debole e accerchiato – dalla tecnologia, dall’insicurezza, dal lavoro che cambia, dalle facce di un altro colore che incontra sempre più spesso per strada. Calenda e Macron parlano, non a caso, della necessità di coniugare la sfida dello sviluppo e dell’innovazione ad uno Stato in grado di assicurare protezione. Ed entrambi, con tutte le ragioni del mondo, individuano proprio nelle istituzioni europee il luogo dove queste protezioni possono essere veramente trovate. Il problema è che per ora questo discorso resta distante, troppo complesso ed astratto, troppo lontano da chi dovrebbe ascoltarlo. Noi che siamo nel bright side of the road lo capiamo. Quelli che stanno dall’altro lato, per ora ascoltano Bannon (e Salvini).

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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