Il fallimento degli insegnanti italiani
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Il fallimento degli insegnanti italiani

Il fallimento degli insegnanti italiani

di Francesco Rocchi.

Oggi, mentre passavo un’accidiosa ora di nullafacenza in sala insegnanti, mi è capitato sottomano un articolo [link], l’ennesimo, di confronto tra gli stipendi dei docenti tedeschi e quelli degli italiani.
E’ un confronto impietoso: gli insegnanti tedeschi sono pagati come solidi professionisti, quelli italiani come manodopera non specializzata. Da insegnante quale sono, quindi, non mi sono sottratto all’indignazione che l’articolo mi richiedeva a gran voce. Bisognerebbe far qualcosa, soprattutto ora che c’è una nuova compagine governativa che vuole cambiare tutto. Non dovrebbe essere poi così difficile: non c’è forza politica che non sottolinei l’importanza di avere una scuola di qualità e i 700.000 circa insegnanti italiani, con relative famiglie, dovrebbero essere una lobby politica di un certo peso elettorale.

Però io non credo che succederà niente. E questo per una ragione ben precisa: come categoria di lavoratori nel suo complesso, gli insegnanti italiani hanno sostanzialmente fallito. Ovviamente gli insegnanti italiani non hanno colpa di molti dei mali della scuola italiana e la loro mancanza non è stata nel non trovare una soluzione a tutti i problemi, ma piuttosto non di non esser mai riusciti a guidare o influenzare il dibattito pubblico sulla scuola, senza quindi mai nemmeno poter avanzare richieste sindacali realistiche. Gli insegnanti hanno combattuto quasi tutte le battaglie sbagliate ed ignorato quasi tutte quelle giuste. E non sembrano intenzionati a smettere.

Re-impostiamo la questione nei termini dell’articolo summenzionato. L’assunto dell’articolo è che la Germania ha fatto una scelta esemplare pagando bene i propri insegnanti, e che l’Italia dovrebbe fare altrettanto. Proviamo allora a darci una cifra, tanto per darci un termine di riferimento. Visto che tanto parliamo di cifre ideali, potremmo proporre un aumento secco del 50% per arrivare sui 45.000 euro lordi, una cifra che oggi non si vede neanche a fine carriera, ma che non è lontana dagli importi austriaci o irlandesi: 3500 euro lordi per 13 mesi. Sarebbe sopra la media europea, che però è tirata giù dagli stipendi assai bassi dell’Est Europa (e dell’Italia, ça va sans dire).

Andiamo ora a vedere in quale contesto lo Stato italiano dovrebbe concedere un tale stipendio: chiaramente esso sarebbe magari adeguato alla responsabilità del ruolo, ma bisogna anche valutare se si tratti di un buon investimento.

Il punto di partenza sono le modalità di assunzione degli ultimi 20 anni. Ai tempi della scuola di specializzazione (SSIS) per insegnanti, attive dal 1999, si veniva chiamati in ruolo da graduatorie che includevano soltanto chi fosse risultato idoneo all’ultimo concorso o avesse passato la selezione, abbastanza stringente, della SSIS medesima. In seguito le maglie si sono allargate fino ad includere tutti quelli che avessero almeno 3 anni di servizio precario*, per i quali erano stati attivati i cosiddetti PAS (=percorsi abilitanti speciali). Un’intera coorte di insegnanti, difficilmente quantizzabile ma ampia, è quindi entrata di ruolo senza alcuna selezione di sorta, e annullando quella operata a monte dalla SSIS.

Nel 2012 si è tornati ad una selezione più stringente, concorsuale. Con il concorso di Profumo e quelli successivi è stata infatti ristabilita una qualche forma di meritocrazia, ma il risultato sulla qualità complessiva dei docenti è stato anche stavolta nullo, perché moltissimi di quelli respinti ai concorsi sono rientrati dagli altri canali: graduatorie ad esaurimento, piano assunzionale straordinario, eccetera. Ora che tutte le varie graduatorie a esaurimento sono vuote e il concorso è l’unico canale di accesso, il sistema comincia ad avere dei filtri, che però finora non si sono ancora visti, di fatto.

Riassumiamo dunque la questione. Negli ultimi vent’anni lo Stato italiano ha rinunciato del tutto a vagliare la propria classe docente e ha aumentato l’organico per sanare il precariato (con la Buona Scuola): ha assunto praticamente chiunque. E’ ragionevole immaginare che lo Stato italiano, anche a prescindere dalla sua situazione finanziaria, potesse elargire stipendi 3500 euro lordi mensili ad una massa di lavoratori così enorme e così poco formata e vagliata?In tutta onestà, e per quanto mi amareggi, devo dire che la risposta è no.

Il problema però è più grave e più ampio di così. Dimentichiamoci pure di come sono stati assunti finora gli insegnanti e soffermiamoci sul servizio: questo non è monitorato in alcun modo. Attenzione: non sto dicendo che il servizio andrebbe monitorato per sapere quali insegnanti siano più bravi, perché il nostro assunto è che tutti gli insegnanti meriterebbero un aumento del 50% secco. Sto dicendo che lo Stato italiano non ha alcuno strumento serio per sapere cosa facciano gli insegnanti italiani in classe. Ci sono dei canali indiretti che forniscono degli indizi -preziosi- sull’andamento generale e c’è anche qualche sparuto ispettore che interviene in casi di emergenza, ma il docente italiano autocertifica il proprio lavoro compilando il registro e qualche piano di lavoro, null’altro. Si può pensare di elargire 3500 euro ad un lavoratore di cui è strutturalmente impossibile sapere cosa stia facendo? La risposta è ancora no.

A fronte di questa situazione, le rivendicazioni degli insegnanti sono sembrate finora parlare di tutt’altro. La richiesta di eliminare la piaga del precariato era legittima (ne so qualcosa, con quasi 10 anni di contratti annuali sul groppone), ma le barricate sindacali per estendere le assunzioni anche molto oltre le semplici graduatorie ad esaurimento hanno sicuramente ammazzato qualsiasi possibilità di riforma strutturale della retribuzione docenti.

Ancora: aver ottenuto le prime pagine dei giornali per la “deportazione” degli insegnanti ai tempi della Buona Scuola ha inferto un colpo durissimo a qualsiasi altra rivendicazione: non si può chiedere di avere il lavoro sotto casa e allo stesso tempo un ricco stipendio ben sopra la media nazionale. Questo non vuol dire che le assunzioni straordinarie siano state ben gestite (non lo sono state), ma soltanto che estremizzare lo scontro e puntare tutte le energie su una richiesta irricevibile, quella di creare cattedre là dove non ci sono gli studenti (e proprio mentre lo Stato assume quasi centomila docenti in blocco), ha reso ancora in più improbabile che l’opinione pubblica potesse vedere con favore un aumento sostanziale dello stipendio.

Si potrebbero fare altri esempi, forse, ma il punto non cambia: finché gli insegnanti si limiteranno a rivendicare il risanamento di un torto, chiedendo tanto in cambio di niente (questo vuol dire rivendicare aumenti senza riorganizzazione strutturale del contratto e della prestazione lavorativa), l’opinione pubblica non si smuoverà. I docenti devono convincere i contribuenti che dar loro più denaro sia una buona idea, non battere i piedi e agitare i pugni. Sarebbe il caso di mettere da parte le pure rivendicazioni e cominciare ad offrire qualche cosa. Che cosa?

In primo luogo, la trasparenza: gli insegnanti devono chiedere di avere un luogo in cui discutere le scelte didattiche in maniera approfondita con gli altri colleghi, e con dei supervisori capaci di indirizzare e consigliare (che altro non sarebbero che colleghi senior). Il collegio dei docenti non basta: servono riunioni di lavoro specifiche, frequenti, in cui presentare tutti i dati disponibili sulla didattica e sugli studenti. Sarebbe un impegno pomeridiano più intenso di quello attuale? Senz’altro. Ma sarebbe anche un’occasione di crescita professionale, di elaborazione e di condivisione. Tutte cose che darebbero fiducia alle famiglie e all’opinione pubblica.

A seguire: l’autonomia. I programmi ministeriali sono stati aboliti da circa vent’anni, ma l’organizzazione scolastica è così rigida da far sì che si prosegua con tutti gli impacci di un tempo. Un insegnante in grado di rivendicare la propria autonomia organizzativa, di crescere professionalmente e di chiedere al ministero di lasciargli la mano libera in cambio di una seria rendicontazione,  è anche un insegnante che può avanzare delle richieste economiche coerenti con il maggiore impegno e la maggiore responsabilità che si assume. Docenti capaci di interpretare in questo modo la professione sarebbero anche in grado di formarsi nel tempo su funzioni e materie diversificate e più ampie, laddove il docente medio oggi è contento della sua graduatoria e lì rimane: è evidente che è molto più facile concedere un aumento serio ai primi, invece che ai secondi.

Infine, la dirigenza. I docenti hanno lottato come leoni contro i “presidi sceriffi”. In altre parole, contro un fantasma. E senza controproposte: si sono limitati a lamentarsi. Avrebbero potuto chiedere un middle management che sottraesse ai dirigenti attuali tutte quelle funzioni didattiche che un dirigente oggi non riesce a seguire, oberato come è dalla burocrazia -quella burocrazia di cui i docenti si lamentano in continuazione, ma che non mettono mai in discussione seriamente.

Avrebbero potuto chiedere anche di riformare anche la selezione dei dirigenti, che oggi non tiene in alcun conto la carriera pregressa dei candidati alla dirigenza. L’unica “promozione” cui un docente può aspirare è quindi totalmente slegata dall’attività professionale fino al momento del concorso a dirigente, con il risultato che un aspirante dirigente non è affatto invogliato a lavorare bene da docente per poi accedere alla promozione -così come invece accade in tutti i luoghi di lavoro. La conflittualità con i docenti oggi anche nasce dal fatto che persone brave a studiare per il concorso e a passarlo spesso non si sono poi rivelate brave a gestire una scuola. I docenti hanno proposto alternative concrete? No, si sono lamentati e basta.

Di migliorie se ne potrebbero avanzare migliaia. Una volta che i docenti, come categoria, abbiano sfidato la politica ed indicato una strada praticabile di miglioramento vero, accettando di mettersi in discussione e offerto qualcosa di concreto sul piatto, qualcosa potrebbe cambiare.

Io ho però come la pessimistica sensazione che continueremo a chiedere la luna, chiusi nella nostra sdegnosa convinzione che i miglioramenti non ce li dobbiamo guadagnare, ma pretenderli a mo’ di riparazione di antichi torti, salvo poi accontentarci di piatti di lenticchie: piccole modifiche delle tabelle di valutazione dei titoli, qualche assegnazione provvisoria in più, e poco altro.
Ma magari mi sbaglio.

*Correzione: in realtà l’inclusione in GAE non era automatica, ma soltanto a seguito di ricorso (con “class action” promosse da diversi sindacati), quindi la “sanatoria” è meno radicale di come proposto nella prima versione dell’articolo (31/05/18)

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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