Una lucida utopia: l’Europa unita, come barricata, contro i populismi
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Una lucida utopia: l’Europa unita, come barricata, contro i populismi

Una lucida utopia: l’Europa unita, come barricata, contro i populismi

di Alessandro Venieri.

C’è qualcosa di inquietante nell’evoluzione del dibattito e delle manifestazioni pubbliche a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi e anni nel nostro paese (con una dinamica che tuttavia non è, strettamente, nazionale). Il riferimento è ai casi d’intolleranza e alle varie operazioni di recupero di immagini e retoriche fasciste ed ultra-nazionaliste all’interno del dibattito pubblico italiano.
Ciò che sconvolge maggiormente non è tanto ciò che viene detto e fatto da coloro che in prima persona rivendicano per sé l’iniziativa “estrema”; il dramma non è un piccolo gruppo di fascisti che si intrufola in maniera dimostrativa in un piccolo centro di volontari vicino Como, oppure degli esponenti di Forza Nuova fatti arrivare da Rimini a Forlì per “allontanare” con oggetti contundenti dei contestatori.
Tutto questo è certamente inaccettabile e sanzionabile, ma sono in ogni caso fenomeni che ciclicamente si riaffacciano alla ribalta delle cronache; ciò che è veramente disturbante è la ricezione che avviene negli occhi, nelle menti di chi osserva e commentano i fatti.
Il “terzo”, ovvero il pubblico, testimonia sui media sempre di più un senso di assuefazione alle prevaricazioni fisiche e verbali di questi esponenti dell’ultra-destra, attraverso uno schema via via più stereotipato: “ci sono ben altri problemi nel paese, gli affamatori del popolo vogliono semplicemente distrarre le masse, il popolo non ce la fa più a sopportare e prima o poi si ribellerà contro tutta questa situazione impostagli, perché in fondo si stava anche meglio quando si stava peggio”.

Il meccanismo è sin troppo noto: agitatori e “imprenditori ideologici” mettono in giro notizie false e teorie complottiste, una parte della massa segue l’indicazione e identifica sulla falsariga di questa i propri nemici immaginari, esterni e interni. Ciò che è inedito in queste dinamiche di ricezione ed elaborazione dei fatti è il ruolo fondamentale dei social networks: questi ultimi rendono possibile il consolidarsi di pochi oligopoli delle idee, all’interno dei quali minoranze fortemente ideologizzate possono ritrovarsi chiuse in un sistema perfetto di continua conferma e progressiva radicalizzazione, in cui sempre più si sentono legittimate ad avanzare con le proprie, sgangherate e deliranti idee, facendosi sempre più aggressive.
Quale beffa per i profeti della democrazia digitale!
Il problema delle fake news che domina da alcuni mesi le cronache è semplicemente la punta dell’iceberg di quello che è un naturale processo di auto-reclusione ed esclusione di coloro che desiderano vedere confermate le proprie idee, in spregio anche dei cari, vecchi, nudi fatti. Troppi utenti del web sembrano voler rinunciare alla propria capacità di autocritica, decidendo di abbracciare il conforto di un perenne confronto solo con i propri alter ego, con cui condurre senza fine il medesimo, apparentemente inattaccabile, discorso.

Il fermentare delle idee complottiste, fasciste e primitiviste, trova un ambiente ancor più favorevole nel momento in cui la politica ha deciso di abbandonare completamente visioni utopistiche e ideologiche della società (come eminentemente descritto da Cacciari e Paolo Prodi in “Occidente senza utopie”). La scomparsa delle passate utopie, comportata dalla caduta della prospettiva socialista a livello mondiale e in ambito domestico, come anche l’incapacità delle maggiori forze politiche di produrre un nuovo discorso immaginifico dell’avvenire della società, ha prodotto come risultato un ripiegamento su se stessi dei discorsi politici contemporanei, per la maggior parte incapaci di intrattenere un rapporto osmotico con la società, con sempre minore radicamento nel territorio e nelle realtà quotidiane delle masse.

Al contempo anche dal basso, sempre più, le realtà di organizzazione e iniziativa della società civile hanno assunto un carattere maggiormente tecnicistico, asettico, di perseguimento del “bene” quale affinamento dell’esistente, senza una visione più comprensiva del futuro delle persone e senza prevedere posto per il lato emozionale dell’umano. La responsabilità per questa de-politicizzazione è dunque molteplice, ma quello che è chiaro è che questo processo ha allo stesso tempo ridato vigore a quelle formazioni che erano rimaste ai margini della società e che subito si sono organizzate per colmare il vuoto creatosi, specialmente in seguito alla crisi economica che ha scosso la coesione del corpo sociale nella sua interezza. Il riemergere di un discorso politico di rivendicazione della propria (supposta) identità ha trovato terreno fertile in tutti quei cittadini che, dismesse le vecchie ideologie, cercano rassicurazione in equazioni semplicistiche e che trovano il proprio motivo di essere in un rifiuto della situazione presente, frustrante, attraverso un’immagine di ‘potenza esistenziale’ (P. Burrin), la quale a sua volta rimanda a un universo mentale legato a processi psicologici “infantili” (poiché originati durante la prima infanzia nelle nostre esistenze). Nella costituzione ideologica delle nuove formazioni neo-fasciste e neo-identitarie ha giocato un ruolo negativo fondamentale l’Unione Europea; alcuni sostengono che l’equazione “meno Europa, più nazione” suoni scontata. In fondo quale movimento fascista o etno/nazionalista rivendicherebbe un’unità europea?

In realtà nel corso della storia del XX secolo, seppure a intermittenza, abbiamo esempi di movimenti neo-fascisti che si richiamavano a una unità delle nazioni europee, quale ad esempio lo Union Movement di Oswald Mosley, il quale predicava l’ineluttabile fusione dell’intero continente europeo, destinato a vedere il sorgere di un’unica nazione.
L’utilizzo strumentale del concetto di Unione Europea quale modello sul quale andare a disegnare i tratti del “nemico esterno” non è pertanto logicamente pre-determinato da idee di tipo estremistico di destra, ma anzi è contingente alla nostra epoca storica, e motivato da quello stesso crollo delle utopie a cui fanno riferimento Prodi e Cacciari.
Lo stato moderno, quale imperfetta e progressiva secolarizzazione delle proprie ragioni fondanti, mette in moto un progressivo prosciugamento di tutte le narrazioni a contenuto utopico che hanno nondimeno contribuito a gran parte della costituzione ideologica, politica e giuridica delle fondamenta dello stato stesso.
Lo stato liberale sembra effettivamente incapace, secondo il famoso dilemma di Böckenförde, di garantire in maniera liberale i presupposti sui quali esso stesso è fondato.

Questo perché il fondamento liberale dell’economico e del politico non è in grado di render conto dei motivi profondi che garantiscono la coesione del tessuto sociale: “Lo studio intellettuale della politica e della società fu trasformato dal riconoscimento del fatto che se esiste davvero un motivo capace di tenere insieme le collettività umane, questo non è sicuramente il calcolo razionale dei singoli individui.” (E. Hobsbawm). Il fondamento da cui gli stati liberali hanno attinto gran parte della propria legittimità è generato dall’accostamento, sempre maggiore a partire dal XVIII secolo, del concetto di nazione a quello di stato; in tale processo storico è proprio il secondo, lo stato, ad essere artefice della nazione, attraverso un’opera di “invenzione della tradizione” (E. Hobsbawm) e di modellazione di “comunità immaginarie” (B. Anderson).
La tremenda forza distruttiva dello stato liberale di massa a trazione nazionalistica ha mostrato però i propri effetti orripilanti nel corso del XX secolo, dimostrando ancora una volta che conoscenza, cultura, istruzione e democrazia non sono sempre argini capaci di tenere a bada i marosi della violenza di massa a sfondo etnico o politico. Talvolta, al contrario, sono proprio la maggiore istruzione, cultura e democrazia a tramutarsi in strumenti perversi di questo lato inquietante della natura umana, costituendo potenti mezzi nelle mani di chi vuole servirsi del “lato oscuro” (M. Mann) dello stato-nazione liberal democratico.

Il problema centrale di questa inquietante trasmutazione dello stato che decide di porre il tema della nazione come proprio pilastro è, come già era chiaro a Böckenförde stesso, che lo stato rischia di cessare di essere liberale per divenire totalitario, dissolto dalla logica nazionalista stessa, che per un ribaltamento di ruoli arriva a riguardare lo stato come uno strumento transeunte, destinato a essere dismesso quando l’umanità sarà stata “rifondata” (o “purificata”). Proprio in risposta a questa barbarie, per via dell’orrore suscitato da quelli che sono stati gli orrori più atroci nella storia dell’umanità, prese il via il Movimento Federalista Europeo, e in Italia l’esempio di Spinelli è di grande ispirazione, perché vede il progetto europeo fondato non solo su quello che è l’immediato vantaggio economico, ma sin da subito su uno spirito più profondo di comunanza, su quella che è una vera e propria nuova utopia politica.
Purtroppo la realpolitik, fatta di severi compromessi e di pesanti delusioni, ha fatto in modo che il progetto europeo abbia perso gran parte del proprio slancio idealistico, lasciando la maggior parte dei paesi europei a metà del guado tra principio nazionale e spinta verso un’unione vera, senza ambiguità.
Impossibilitati per via della propria stessa storia a tornare ad utilizzare in maniera disinvolta il principio nazionale, gli stati nazionali e i loro governanti sono allo stesso tempo carichi di dubbi per quanto riguarda la dissoluzione della propria individualità più profonda, che vorrebbe dire rinuncia alle proprie prerogative simboliche ed identitarie.
Ne risulta, da parte dei maggiori capi di stato dell’Unione, un discorso politico a metà, che non vede un utilizzo pieno di nessuno dei due registri politici immaginativi rimasti disponibili, ma che anzi gioca sulle ambiguità, sulle zone d’ombra e sulle sfumature per accumulare vantaggi striminziti sugli altri competitori politici.
Pertanto l’enorme contenuto propriamente politico del progetto europeo viene lasciato in disparte dagli esponenti governativi, o utilizzato ad intermittenza, talvolta bistrattato quando occorra drenare responsabilità che in realtà sarebbero da attribuire a se stessi ma per le quali non si desidera essere giudicati.

La carica utopica europeista è così divenuta, escludendo ristrette nicchie federaliste e fortemente pro-europeiste, uno strumento che è adottato dalla retorica nazionalista, retorica che ne inverte la carica da positiva a negativa ma che se ne vale per dare slancio a determinati aspetti del proprio programma, dovendo per ovvi motivi evitare un discorso di stampo apertamente iper-nazionalista, o perlomeno di contrapposizione esplicita alle altre realtà statali e nazionali, europee e non. L’anti-europeismo, in pratica, arriva a essere costituito quale slancio utopico distruttivo, che molto spesso è anzi più efficace di quello propriamente costruttivo nel catturare il consenso di determinate categorie o sottogruppi sociali.

A questo tipo di retorica fatta propria da pochi gruppi ben organizzati (ma che affascina anche numerosi elettori di altri partiti e movimenti, siano essi di destra, centro o sinistra), i rappresentanti politici più in voga desiderano rispondere opponendo un discorso che fa riferimento per la maggior parte a una “etica della responsabilità”, opponendo ragionevolezza e crudi fatti a quelli che spesso sono veri e propri deliri e ossessioni paranoidi. D’altra parte dello stesso parere è anche il professor William Warrel, il quale pur esprimendo timore per l’era di profonda irragionevolezza nella quale siamo immersi oggi, non perde la speranza di vedere prevalere i principi di “razionalità” e “ragionevolezza”, adottando una visione positivista della realtà sociale.

C’è del merito in tutto questo; c’è sicuramente una responsabilità pubblica degli attori politici, istituzionali e accademici, i quali devono farsi portatori di una funzione “parresiastica” all’interno della società odierna, smentendo ovunque sia possibile le realtà fittizie che molto spesso cittadini qualsiasi decidono di adottare, in mala o buona fede, per poter riconciliare ciò che appare caos e confusione (da notare che la funzione dell’ordine opposto al caos viene spesso a galla nella retorica di protagonisti dell’estrema destra; è adottata ad esempio dal leader di Forza Nuova, Fiore).
Lontano dalla verità, dalla correttezza formale, lontano dai fatti, qualsiasi discorso pubblico è destinato a produrre aberrazioni.
In aggiunta a tale procedimento però non si può far finta di non vedere come spesso nella storia questa forma di prevenzione innanzitutto intellettuale e dialettica non ha sempre visto il successo, ed anzi moltissime volte non si è dimostrata in grado di reggere l’urto della capacità di proselitismo di dottrine fondate su menzogne nazionaliste e sovraniste, sapientemente impacchettate da coloro che sanno attingere magistralmente il fondo oscuro dell’animo umano.

Ciò che occorre fare è riappropriarsi del significato più eminentemente politico della costruzione europea, saperlo brandire di fronte alla paura, portare speranza attraverso una riforma dell’impianto attuale che possa dischiudere quello che è l’unico, vero scenario di prosperità e pace che è plausibile per i cittadini europei. Occorre avere il coraggio di rigettare il mito della nazione, non avere paura di presentarsi di fronte al cittadino per spiegargli che l’entità statale ha tratto giovamento, in maniera strumentale, dalla creazione di miti fondativi e tradizioni, che le comunità cui si fa riferimento sono sempre immaginarie e mai di destino. Un discorso di questo tipo è doloroso, crea dissonanza quando portata all’attenzione dei cittadini comuni: è un fatto, a livello accademico quasi unanimemente accettato, che lo stato preceda e fondi la nazione, che entrambi questi dispositivi non siano altro che artifici sociali con una storia e genealogia ben definite, attraverso un movimento di formazione lento ma spesso ben rintracciabile.

È questo un discorso forse addirittura violento nella propria chiarezza; la proiezione positiva che da questo tipo di narrazione deve sorgere è quella della fondazione di una Comunità Europea nuova, che possa ritrovare all’interno di sé il valore vero della solidarietà, che si possa dare una vera cultura unitaria nell’accettazione delle diversità e nella difesa dei diritti dei più deboli, che possa ergersi a baluardo di pace, stabilità e prosperità sullo scenario mondiale.
Se si accetterà di accogliere questo messaggio di speranza, questa nuova possibile e lucida utopia all’interno del discorso politico, si riuscirà ad erigere una efficace barricata contro l’avanzare di populismi ed estremismi, specie quelli ultra-nazionalisti.
Se si deciderà invece di affidarsi unicamente al principio di ragione, si assisterà quasi sicuramente a una crescita di tutti coloro che sui nuovi “media dell’odio” danno disinvolto sfoggio di passate ideologie, valendosi di quel senso di impunità e spavalderia che la natura dei nuovi networks fornisce loro.
L’impatto che i nuovi social media hanno avuto sulle masse è, da un punto di vista del discorso pubblico e specialmente politico, ampiamente negativo; nell’epoca delle “fake news” chiunque, navigando per la rete, è in grado di trovare supporto a qualsiasi tesi, anche la più assurda. La terra così ridiventa piatta, i vaccini diventano nocivi, gli ebrei uccisi nella seconda guerra mondiale non sono più sei milioni ma due, e in tutto questo le comunità accademiche e scientifiche non possono granché, esautorate della loro funzione di critica e di selezione.
Non occorre essere necessariamente pessimisti: in fondo è probabile che ci siano, già ora, i necessari anticorpi nella società in grado di garantire abbastanza forza a posizioni basate su ragionevolezza e razionalità; nulla è mai necessario nella storia, ed è anche probabile che tutto questo sia solamente un inutile allarmismo.

Tuttavia, essere prudenti e prevenire ciò che può essere evitato, prendendo tutte le precauzioni del caso, risulta sempre la soluzione migliore, specie quando i toni esasperati raggiungono livelli inaccettabili per un paese democratico e civile.
Pertanto occorre uno sforzo congiunto in questa battaglia dove la posta in palio non è solo la mente ma anche il cuore dei cittadini, una battaglia che deve essere innanzitutto culturale, e che occorre cominciare da una più seria disamina delle disgrazie dello scorso secolo all’interno dei programmi scolastici, una trattazione più sistematica di quelli che sono i meccanismi e le dinamiche dei regimi totalitari e dittatoriali che hanno portato a morte e disperazione nel corso del ‘900, ricordando che non veniamo, né si può tornare, ad alcun empireo.
Occorre allo stesso modo un’azione forte ed impegnata da parte degli accademici e del mondo dell’università in generale, affinché si faccia promotrice di una azione di informazione ad ampio raggio presso la popolazione, tentando di colmare il distacco sempre maggiore tra quelle che sono le opinioni del cittadino comune e ciò che è il vero e il verosimile.

L’Unione Europea deve poter raggiungere maggiormente la vita quotidiana della popolazione, partendo anche qui dai programmi scolastici e procedendo attraverso un impegno sul territorio pedissequo e costante. La vicinanza dell’Unione alla realtà di tutti i giorni deve essere resa visibile attraverso simboli tangibili, e i programmi di scambio devono poter essere potenziati e resi disponibili sin dai primi anni della scuola dell’obbligo. Ciò che è più arduo è l’impegno per un approfondimento dell’Unione esistente, che a tutt’oggi si presenta troppo poco coesa e incompleta in tanti propri ambiti, come ad esempio il monetario, il culturale, il sociale e il militare.
È proprio quest’ultimo punto, che comporta purtroppo notevoli problemi giacché dipendente dall’azione concertata di molteplici attori, a essere veramente decisivo, in quanto dà ragione e sostanza a quella che altrimenti rimarrà una utopia non lucida ma illusoria. Tutto però comincia dal non voler sottovalutare i segnali che ci parlano oggi di un deterioramento del dibattito pubblico e di un crescente disagio strisciante nella società civile, non prendendo per scontati il benessere e la pace di cui godiamo.

Chiudo citando in proposito un ottimo libello uscito da poco, “Viva l’Europa viva” di Davide Giacalone: “Nati e pasciuti nella pace, nella nostra pace, lasciando altri al loro inferno, si suppone che questa condizione sia naturale. Oramai assodata. Ma se si ascolta il linguaggio di molti, nelle varie lingue che solcano e caratterizzano il nostro continente, ci si accorge che si conserva la pace solo perché non li si prende sul serio. Invece credo che vadano ascoltati con serietà. Molto spesso sono lo schiumare dissennato di latrati senza costrutto. Anzi: distruttivi. Ma sotto queste voci si agitano disagi reali e paure diffuse. Guai a non prenderli sul serio, lasciando l’impressione che quei disagi e quelle paure non siano problemi veri. Accomunando tutto nell’esecrazione dell’aggressività verbale. Si stia bene attenti a non commettere questo errore, anche perché il diffondersi di un melassoso e insulso linguaggio, ispirato al politicamente corretto, non è una falsificazione meno foriera di pericoli.”

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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