Il cestino in testa alla professoressa: di chi è la colpa?
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Il cestino in testa alla professoressa: di chi è la colpa?

Il cestino in testa alla professoressa: di chi è la colpa?

di Cristiana Alicata.

Il caso della professoressa alla quale viene tirato un cestino e che resta inerme mi ha ricordato i due anni in cui ho avuto una supplenza di 6 ore a settimana in una scuola alla quasi periferia di Roma. Un istituto tecnico industriale.
Ebbi due classi di tutti maschi di circa 16 anni con tutta una serie di particolarità: dallo studente mussulmano (e nero) in pieno 2001, al ragazzo con disturbi molto gravi che non aveva il sostegno per tutto l’arco della giornata e quindi dovevamo arrangiarci io e i ragazzi a tenerlo calmo, al ragazzo primogenito, orfano di padre e pluribocciato sempre sull’orlo di mollare per andare a lavorare, al figlio di papà che faceva il prepotente.
La porta della classe aveva un buco in cui si affacciavano i bidelli senza aprirla. I primi tempi sono stati durissimi, i miei studenti (alcuni dei quali sento ancora) se lo ricorderanno bene. La prima volta che arrivai una delle bidelle mi prese per un’orecchio perchè ero accorsa nei bagni sentendo delle urla e lei mi aveva scambiato per un ragazzino che stava partecipando alla rissa. Mi scusi professoré non lo sapevo.

Io ero ancora studentessa di ingegneria e facevo una sostituzione a chiamata diretta per insegnare Meccanica e Macchine perchè di ingegneri disponibili ad andare ad insegnare non ce ne erano e quelli che lo facevano, lo facevano per arrotondare e avevano quasi tutti uno studio, il che significa che proprio il prof della materia più importante non era di quelli che il pomeriggio restava a scuola a costruire attività come io ero abituata con i prof di italiano, latino e greco quando ero al liceo.
Nella stessa scuola c’era un enorme laboratorio, un bellissimo laboratorio pieno di torni. Inutilizzabile: il capannone aveva la copertura di amianto. Non è stato mai bonificato.
I ragazzi non erano mai stati in gita, nemmeno ad una gita di un giorno, li portai io un anno (2 giorni a Bologna) dietro la promessa di arrivare ad un certo punto del programma. Quella notte stetti alzata tutta la notte perchè ero terrorizzata che potessero fare qualche cazzata. Li trovai con un’enorme spinello in una delle stanze (che credo finì buttato dalla finestra, i miei colleghi di università ci avrebbero riso per giorni rollandosi i loro spinelli) e restai con loro tutta la notte a giocare a poker, vincendo (e fu l’unica volta della mia vita in cui giocai a poker, attività che mi sembrò meno pericolosa di qualsiasi altra cosa se si escludeva dare un sonnifero a tutti per farli dormire). Avevo ancora freschissimo il ricordo di quello che solo pochi anni prima avevo visto fare a me e ai miei compagni di classe nelle varie gite scolastiche e che in alcuni casi non si può raccontare.

Una volta Marco (lui se lo ricorderà) si alzò per andare al bagno senza chiedermi il permesso e io mi piazzai tra lui e la porta. Marco era il bullo della classe. Mi disse di spostarmi (e non lo disse con gentilezza, disse: levate pressorè che ti conviene) ma io non lo feci. Avevo una paura fottuta, ma alla fine lui non tirò fuori nessun coltello, si risedette e alzò la mano chiedendomi di andare al bagno. Ogni tanto mi chiama ancora.
Gli facevo fare gli scritti in uno spazio più grande della classe altrimenti era impossibile essere sicuri che avrebbero studiato tutti, sarebbero bastati in due. Li facevo stare a 5 metri l’uno dall’altro, ero una spece di generale che camminava in questo enorme stanzone, intercettavo i bigliettini nei pacchetti di fazzoletti e in quelli delle caramelle. Si arrabbiavano (eh ma profosserè ma lei le sa tutte) ma io ero studente come loro, cosa pensavano che facessero pochi km da lì gli studenti di ingegneria per passarsi i compiti di Analisi I e II?
Mi volevano bene. Io gliene ho voluto bene da morire. Mi parlavano dei loro sogni (alcuni a volte lo fanno ancora) e dei loro casini. Nella stessa classe c’era chi sognava di aprire una ferramenta e chi di fare l’archeologo (in effetti uno dei due era nel posto sbagliato). Mi raccontavano le storie di ragazzi che dalla Tiburtina andavano nei quartieri dove abitavamo “noi” ricchi per rubare caschi e mute da pioggia dai bauletti dei motorini. Se non i motorini stessi. Era una classe difficile. Sì.

Nella stessa classe c’era una prof d’italiano che era matta come un cavallo. Ma matta sul serio. Non si spiegava come fosse finita ad insegnare, ma si spiega come mai dalle scuole del centro fosse finita ad insegnare a quelli che chiunque, fuori da scuola, vedendoli sui motorini, coi loro scooter, i caschi appesi come mantelli invece che sulla testa, i bomber e qualche frase d’accatto rubata a qualche dittatore per sentirsi più forti, avrebbe definito degli avanzi di galera. Una volta uscendo da una classe sentii delle urla nella classe che avevo avuto l’anno prima ed entrai. La prof di italiano ballava roteando la lunga gonna nera (e non vi dò altri dettagli) e i ragazzi ridevano, le tiravano cose. E’ stata una scena squallidissima. Brutta. Non mi ricordo nemmeno cosa gli ho detto. Credo di avergli fatto uno di quegli shampoo memorabili. E loro sapevano perfettamente di essere nel torto. Ma quello che stava accadendo era ineluttabile: come chiedere ad un topo di non mangiarsi il formaggio.
Ma io sapevo con chi dovevo essere incazzata. Non con loro. E nemmeno con la prof matta come un cavallo. Ma con chi aveva appioppato quella professoressa alla nostra scuola invece di trovare una soluzione per lei e per la scuola. Consentitemi una metafora forte adesso.

Nelle aziende nei posti più difficili si mandano i manager più capaci. Per approcciare un business difficile, ma anche per gestire le persone. Come diavolo ci viene in mente di mandare insegnanti nelle scuole che non abbiano la capacità di gestire i ragazzi sopratutto in situazioni difficili? Il nostro caso era un caso limite: quella prof non sarebbe stata adatta a nessuna scuola, non avrebbe proprio dovuto insegnare povera donna. Cosa teniamo a fare i professori che si sbattono il pomeriggio a inventare giornalini, attività, teatro e altre diavolerie nelle scuole del centro dove i genitori ti portano già a fare duemilioni di attività sportive e culturali? Non è la mia materia, so che sull’assegnazione della classe docenti vince la geografia residenziale. Ma se pagassimo di più chi (tra i migliori) andasse nelle scuole difficili? Nell’epoca di YouTube la storia recente è finita in una denuncia. Io spero che finisca con una riflessione sulla classe docente e la sua selezione.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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