A cosa serve l’alternanza scuola lavoro?
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A cosa serve l’alternanza scuola lavoro?

A cosa serve l’alternanza scuola lavoro?

di Mila Spicola.

Il dibattito in corso sull’alternanza scuola lavoro ha dato l’occasione per discutere pubblicamente su un tema complesso, da addetti ai lavori ma, come per ogni tema che riguardi il mondo formativo, è bene che tutti abbiano elementi per capire. Cerco di fare chiarezza e di dire come la penso io e cosa è bene, secondo me, diventi.

Molti di voi avranno sentito parlare di competenze per il 21 secolo, di strategia per le competenze, di scuola delle competenze, di didattica delle competenze, di competenze professionali, etc..etc..etc. Sono termini simili ma non indicano tutti le stesse cose.

L’Italia è inserita in una strategia delle competenze dagli anni 2000, recepisce nel 2006 una direttiva europea sulle competenze di base da formare a scuola, che implicano una didattica diversa, ma, nonostante siano trascorsi dieci anni ancora arranchiamo a raggiungere una scuola delle competenze di base. Ma partiamo dall’inizio.

Terminologia. Conoscenze o Competenze.

Noi distinguiamo conoscenze (saperi teorici) e competenze (le definisco la padronanza tale di una conoscenza da farne azione)

E’ errato dunque considerarle alternative tra loro: la conoscenza è precondizione della competenza. Negli ultimi 40 anni si sono succeduti dibattiti tra coloro che erano per una scuola esclusiva delle conoscenze (il cognitivismo, la scuola deve fornire solo saperi e poi sarà la singola persona a rielaborarli e farne proprietà e capacità personali)  e quelli che hanno iniziato a parlare di competenze (sono le teorie del moderno socio costruttivismo, nella ricerca anglosassone sono le teorie sulle 3R o le 4C, sono gli studi sulla didattica e le metodologie per maturarle o maturarle – si va dal linking learning dell’Australia, alla didattica per argomenti della Finlandia, alle riforme canadesi sulle metodologie del recupero, sono tutte varianti applicative degli stessi indirizzi teorici che indicano oggi obiettivi diversi per i sistemi educativi: basati sulla necessità di maturare attraverso i saperi le capacità per applicare quei saperi e, viceversa, maturar meglio i saperi attraverso modelli di didattica innovativa “esperienziale”)

In campo educativo, nel mondo, si sono affermate le seconde teorie. Cosa significa? Significa una modalità nuova di apprendimento che prevede l’esperienza e l’agire (la condivisione, la creazione, la produzione, etc…non solo la trasmissione, le didattiche digitali ben intese ad esempio comportano questi cambi di paradigmi epistemologici). Si tratta di sviluppare le capacità trasversali della persona nello stesso istante in cui apprende. Faccio l’esempio con le due competenze base più note:

Una cosa è saper leggere  (è una conoscenza, leggi delle cose, le impari), un’altra comprendere a fondo quello che leggi, rielaborarlo, saperne dire, farla tua (è la competenza comprensione del testo). Una cosa è conoscere le tabelline o il teorema di Pitagora, una cosa è ragionare logicamente e matematicamente per risolvere un problema concreto con le tabelline o con il teorema di Pitagora.

Abbiamo diversi livelli di competenze:

  1. Le competenze di base
  2. Le competenze molli (soft skills)
  3. Le competenze dure (high skills)

Questa successione è un esempio, in altri paesi possiamo trovare terminologie diverse o livelli o distinzioni. In Italia le competenze di base si chiamano “chiave e di cittadinanza” (così recepite nel 2007 attraverso un DM – https://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/2007/dm139_07.shtml – attuazione di una  direttiva europea del 2006 – http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM%3Ac11090 )

I due documenti recano  terminologie diverse che generano confusioni ma che indicano sostanzialmente cose simili. Ogni paese sta tentando strategie pedagogico-didattiche nelle scuole per implementarle. Le più note sono quelle finlandesi (note perché sono primi nelle rilevazioni internazionali OCSE Pisa nelle due competenze di base più note, comprensione del testo e ragionamento logico matematico). Ma c’è anche il Canada. Oppure l’Australia col linking learning, altro modo per indicare la didattica delle competenze o per competenze.

Per chi volesse capirne di più e approfondire la faccenda, cosa sono, come si formano, come si valutano le competenze di base, rimando a un compendio molto utile e chiaro che consiglio a tutti di leggere, non solo ai docenti, sennò ogni discussione diventa difficile a causa della babele lessicale in cui ci siamo infilati. Il compendio è ad opera di uno studioso italiano della materia, Mario Castoldi, riguarda essenzialmente le competenze di base, ma sono considerazioni estendibili alle competenze in generale.

Questi livelli di competenze, di base, molli (o soft skills), professionali (o high skills), sono dunque declinate nei vari paesi, o organismi internazionali, o nella ricerca educativa, in vario modo e in varie tabelle, tra cui, quella dell’Ocse sulle competenze necessarie per il 21 secolo, è la più nota e diffusa. La tabella presenta insieme le competenze di base, dall’1 al 6, e le competenze molli, o soft skills, dal 7 al 16.

 

Leggendo uno ad uno queste competenze dunque vi riconosciamo le competenze di base, che devono avere tutti i cittadini – comprensione del testo, ragionamento logico matematico, ragionamento scientifico, competenze digitali, competenze economico/finanziarie, competenze relative all’identità culturale e alla cittadinanza attiva – che hanno come mattoncini ineludibili i saperi (ripeto: ineludibili) perché le competenze possono essere definite come padronanza superiore di una conoscenza, tale da poterla applicare; le soft skills (le competenze molli), quelle elencate dal 7 al 16, che se le leggiamo e ci riflettiamo, possiamo definire le qualità caratteriali necessarie per vivere in un mondo complesso: spirito critico, capacità di risolvere i problemi, creatività, capacità comunicative, spirito di collaborazione, curiosità, spirito d’iniziativa, tenacia, adattabilità, leadership, consapevolezza sociale e culturale.

Un tempo, in un mondo stabile, certo, con confini limitati e fissi, i sistemi formativi potevano occuparsi meno di competenze di base, o di soft skills, potevano maturarsi in autonomia lungo l’arco della vita, o non maturarsi: era un mondo semplice. Oggi non è più così: un mondo mutevole aggredito da flussi informativi abnormi fanno sì che i saperi siano precondizione, ma diventano ancora più importanti le capacità di “processare i saperi”. Non solo: le moderne scienze cognitive hanno verificato intuizioni di pedagoghi d’inizio ‘900, che preindicavano nel fare e nell’agire una metodologia didattica positiva per migliorare anche gli apprendimenti teorici. Sono esperienze e studi ormai acquisiti nel ciclo primario della scuola italiana, mentre devono ancora far parte del bagaglio dei docenti delle scuole secondarie superiori di primo e di secondo grado, docenti che fino ad oggi non hanno incontrato nei loro percorsi studi di pedagogia, didattica, psicologia cognitiva.

Oggi un mondo complesso quale quello in cui stiamo vivendo, la complessità, la flessibilità, il carico informativo, le incertezze e tutte le cose che diciamo e ci ripetiamo, obbligano ciascuno a maturare competenze chiave e competenze molli: sia per la vita, che per il lavoro. Sono cioè le precondizioni per la vita. E per il lavoro.

Le high skills in questa tabella non ci sono, sono le competenze professionali, anche queste non sono le semplici conoscenze: studio, mi laureo e poi me le formo. Questo era il percorso della vita di tanti. Oggi anche le competenze professionali possono coltivarsi durante gli high studies (its o università, attraverso tirocini e stages possibilmente, o attraverso laboratori, tirocini o stages). Soft skills e high skills sono dunque cose diverse.

 L’alternanza scuola lavoro

Il nostro sistema formativo ha una debolezza: matura molto bene conoscenze (se poi lo faccia bene sempre è altro discorso), inizia a maturare da una decina di anni le competenze di base, matura conoscenze e competenze professionali (anche qui se lo faccia bene sempre è altro discorso), mentre rimane scoperto da anni il tema delle soft skills. Se avete letto fino in fondo il documento di Castoldi, avete appreso che le competenze si maturano attraverso esperienze reali, compiti reali, non simulati. E allora, possiamo definire l’alternanza scuola lavoro come un laboratorio per le soft skills? Sì. Sono importantissime? Sì. Se ne deve occupare la Scuola? Sì. E’ stata raccontata in questo modo? Mi pare di capire che no, mancano dei pezzi. Se andiamo a leggere il documento prodotto dal Ministero e inviato alle scuole, tra le finalità dell’alternanza compare un “maturare le competenze trasversali”, genericamente. Non basta. E, se avete letto il documento di Castoldi, comprenderete che ai docenti e alle scuole, serve avere un supplemento di informazione, formazione e conoscenza in più.

Si tratta di un’innovazione profonda che avrebbe bisogno di un coinvolgimento diverso della classe docente, un coinvolgimento di senso e che avrebbe necessitato di una sperimentazione. Informare e dimostrare, o meglio, farlo dimostrare al docente, che una certa didattica, e l’alternanza lo è, funziona meglio di un’altra, questo rende più significativo il lavoro del docente, ma rende anche più efficace il raggiungimento dell’obiettivo, una volta che anche questo si è chiarito bene.

L’alternanza dunque deve essere spiegata e svolta, secondo me, come un progetto programmato dai docenti (ai quali si spieghi che è questo) e da una struttura di accoglienza (alla quale si spieghi che è questo) che abbia un obiettivo didattico chiaro: formare e sperimentare le soft skills, non altre.

In questo modo i docenti lo comprendono, ma anche gli studenti.

Va preso l’elenco delle soft skills, indicarle col ditino una a una (senso critico, creatività, leadership, intraprendenza, etc..etc..quelle) e lavorare insieme ricerca educativa, scuole e imprese per definirle meglio, implementarle attraverso attività progettate. Ma si deve ribadire che l’obiettivo sono quelle lì. Non “competenze trasversali” generiche. Non “nuove competenze” generiche. Ma quelle lì.

Dunque in questo senso l’alternanza non è un lavoro, non è apprendistato, non è stage, perché non è finalizzato a formare professional skills ma soft skills. Non deve essere pagato e non prevede sfruttamento perché è attività didattica. Che va valutata e, scusate se lo ripeto, se avete dato un’occhiata al documento di Castoldi (ma ce ne sono tanti altri), vedrete quanta parte ha la valutazione delle competenze, nella definizione poi delle metodologie.

L’eventuale attività svolta – il lavoro –  è il mezzo e non il fine. Ad esempio se l’obiettivo didattico è implementare lo spirito di collaborazione, l’adattabilità e la capacità di risolvere dei problemi reali di uno studente molto bravo ma rigido, bloccato e con problemi di socialità di un  liceo classico, cambia poco se il mezzo sia andare a far parte di un gruppo di ragazzi che devono cucinare in una mensa, giusto? C’entra poco l’affinità col percorso di studio. Il fine è imparare a cucinare? Può darsi che imparerà anche quello, ma il fine non è l’abilità dell’attività che si va a fare, il fine è un altro e la valutazione sarà su quell’altro fine. Può organizzare visite guidate per ragazzini delle elementari e gestirli, ma il fine non è la conoscenza approfondita del sito che andrà a far visitare perché lui è bravo in storia dell’arte bensì il gestire una situazione in cui deve rapportarsi con altri e in modo flessibile. Dunque  l’argomento o l’attività, sono il mezzo. Il fine è maturare la competenza che i docenti avranno programmato consapevolmente insieme all’agenzia con cui organizza l’attività.

FAQ

  1. Si può parlare di sfruttamento? Se l’alternanza la si intende così no, perché non è un lavoro, è un progetto didattico, come una visita guidata. Andare in visita guidata in Spagna è sfruttamento? No: è un progetto didattico. E così l’alternanza. Ma lo devono avere chiaro studenti, docenti e aziende che accolgono. Sennò è tempo perso.
  2. Serve utilizzare e definire l’alternanza scuola lavoro come laboratorio di soft skills? Sì, perché sono precondizioni per la vita e per le competenze professionali che sennò non ti ritrovi.
  3. Il Miur ha compreso che la via per far funzionare questa cosa è un enorme supplemento di senso pedagogico e di formazione e sperimentazione? No. Perché anche buona parte degli “uffici ministeriali” sono ancora legati solo a una scuola dei saperi astratti e non sa di cosa parliamo. Continuano a parlare genericamente di “nuove competenze”. Se va bene. Se va male invece tutta la faccenda viene liquidata nel suo aspetto organizzativo e burocratico. Che è pure importante, ma che al Miur prevalga la burocrazia sulla pedagogia è una delle grandi questioni della nostra scuola.
  4. I docenti le sanno queste cose? Alcuni sì e alcuni no, molti si sono confusi ancor di più coi documenti del Miur. Il Ministero non ha esplicitato il fine in modo chiaro ma solo il come e l’organizzazione (male tra l’altro). La scuola italiana è ancora indietro sulla conoscenza strategica delle competenze di base, figurarsi sulle altre, sulle soft skills. Nella scuola hanno recepito in astratto (con diversi decreti e anche le indicazioni dei curricula delle scuole parlano di competenze) la didattica delle competenze di base. Abbiamo una scuola elementare che già lavora così e sa di che parliamo, le medie così così, le superiori quasi zero, specialmente i licei, che hanno docenti che hanno poca familiarità coi cambi di paradigmi educativi. Anche il mondo accademico, diviso per settori disciplinari, è abbastanza indietro. I testi scolastici poi sono ancora organizzati per saperi in modo tradizionale. Dunque c’è tanta confusione, la materia è complessa, andrebbe messa a sistema e organizzata con una regia unica e dei documenti chiari e semplici
  5. I docenti delle scuole superiori, specie dei licei, hanno motivo di ritrovarsi presi dai turchi specialmente se i documenti del Miur sono assai generici, parlano genericamente di competenze trasversali (le competenze son tutte trasversali): e la maggior parte dei docenti non ha compreso quali? . I più, dentro e fuori le scuole, confondono soft skills, abilità e competenze professionali (del resto le confondono anche al Miur..). E dunque si trovano in dovere di precisare che “no, non siamo operai, siamo studenti”, frase che andrebbe criticata in senso ideale, ma non reale, perché è vero e infatti non sono esperienze di lavoro, ma didattiche, anche se vanno a fare delle attività lavorative in cui il fine non è l’attività lavorativa in sé, quella è il mezzo, non il fine. Lo stesso vale per le aziende. Scusate se mi ripeto molte volte, ma perché è un equivoco secondo me ricorrente. Anche quando le esperienze sono molto positive è bene chiarire in modo adeguato mezzi e fini. Diventa dunque un’esperienza di lavoro non un’esperienza didattica in cui la domanda diventa “Che gli faccio fare a ‘sto ragazzo?” punto. Non : “Deve raggiungere queste due soft skills, imparare le lingue e maturare doti di leadership, la cosa che gli faccio fare serve a questo” a quel punto anche fare il coordinatore di una squadra di friggitori in un mac donald è utile. Se non hanno chiaro questo obiettivo didattico è ovvio che si affannano  tutti a cercare, a trovare cose che possano essere affini per percorso scolastico. “Funziona per gli istituti professionali e non per i licei”, se avete seguito il ragionamento fino ad adesso vi rendete conto quanto poco c’entri una simile posizione con l’alternanza ben intesa. Insomma, l’alternanza dovrebbe avere il concept “ non conta tanto quel che fai, ma come lo fai e se quell’esperienza ha maturato in te delle “qualità molli”.

Verso l’automazione.

Aggiungo una cosa: le macchine potranno col tempo svolgere e avere high skills, ma le soft skills sono quelle che attengono solo all’uomo, nessuna macchina può sostituirle. E’ importante conoscerle e capire come formarle? Sì. E’ importante che lo facciano e sappiano fare le scuole? Sì. E’ importante non confondere le cose e i livelli e affrontare con maggiore approfondimento le premesse che portano all’alternanza? Sì. E’ importante chiarire a chi parla di “queste sono strategie che portano dritto all’automazione” che è esattamente l’opposto, esattamente l’opposto, e che anzi è il cognitivismo astratto delle didattiche tradizionali (qualcuno mi suggerisce che a volte, specie negli insegnamenti disciplinari delle scuole superiori, non si tratta nemmeno di cognitivismo consapevole nelle metodologie didattiche bensì di comportamentismo didattico, leggasi: mi sono ritrovata in questa classe e dunque insegno per come hanno insegnato a me) che può declinarsi facilmente in nozionismo facilmente sostituibile dalle macchine? In nozionismo che tra l’altro non migliora gli apprendimenti perché conduce anche a scarsa motivazione intrinseca in chi studia e dunque in memoria labile degli stessi apprendimenti, oltre che in minore capacità di affrontare e gestire la complessità (concetti noti ormai nella didattica della scuola primaria, meno nella scuola secondaria), per cui è vero che una didattica delle competenze migliora anche le conoscenze? Sì.

Attenzione: ripeto per l’ennesima volta perché anche qui l’equivoco è sempre dietro l’angolo: le conoscenze non sono alternative alle competenze, perché ne sono la precondizione. Chi lo sostiene è generalmente chi non ha approfondito le questioni.

Chiarito questo, tutto il resto vien da sé:  i diritti degli studenti in alternanza, l’organizzazione, il reperire le strutture di accoglienza…

Chiarito questo, tutto il resto della strategia delle competenze per l’Italia, le high digital skills, le high skills professionali, l’industria 4.0, la necessità di attivare e moltiplicare tirocini di eccellenza per le high skills sono tutti momenti successivi. Sono il punto 3.

La strategia per le competenze in generale è la cosa più importante in questo momento per il nostro paese ed è un percorso che disegna la vita da zero anni al resto della vita.

Riassumendo tutto:

Noi possiamo agire in questo modo, riformulare dei documenti di obiettivi per i docenti, proporre laboratori formativi e con-formativi con le scuole sulle competenze (perché le sperimentazioni si conducono in orizzontale con chi deve portarle avanti, che adegua, migliora, raddrizza, applica, si interroga e porta avanti), proponendo intanto una progressione chiara e semplice per livelli di competenze da raggiungere e attraverso quali mezzi:

1  livello: ciclo primario (da zero anni alle medie) ovvero saperi e competenze di base che poi implementi per tutta la vita / mezzo: didattica delle competenze;

2 livello: ciclo secondario (scuole superiori) ovvero saperi e competenze trasversali «morbide» (soft skills)/ mezzo: alternanza scuola lavoro;

3 livello: ciclo terziario (its e università) ovvero saperi e competenze professionali «dure» (high skills) mezzo: /tirocinio e apprendistato di alto livello.

Ciascun gradino è precondizione per l’altro.

Le conoscenze che partita giocano?

Sono i mattoni ineludibili, guai a non comprenderlo. Senza saperi non ci sono competenze. E in questo entra in campo il nostro paese. Noi dobbiamo mantenere e tenere la barra dritta sul grado di approfondimento dei nostri saperi, del nostro bagaglio cognitivo, è la nostra specificità, la nostra marcia in più (non solo per i liceali), ma dobbiamo coltivare questa specificità insieme alle competenze e attraverso una didattica delle competenze. Tra l’altro una didattica del “sapere agito”, se fatta bene e consapevolmente risolve molte delle “domande” del docente, migliora le relazioni e influisce positivamente sugli apprendimenti, non solo, reca con se tutta la questione innovazione didattica, digitale, etc..Però, e il però è grande quanto l’Everest, tutto questo si matura dal basso, dalla domanda del singolo docente: a che serve questa didattica? Quale l’obiettivo? Quale metodologia? Proviamola. Sennò finisce per essere un altro esempio di un dirigismo non condiviso perché non preceduto da una adeguata condivisione e formazione.

Le politiche attive per il lavoro e per la vita, che per chi scrive sono la stessa cosa, ce le giochiamo con queste cose.  Dobbiamo lavorare in chiarezza e sinergia e, per lavorare in sinergia, tutti gli attori e gli ambiti di questa partita devono parlare una lingua comune, con una strategia condivisa, senza confondere lessico e dunque sostanza, livelli, mezzi e fini.

Piccola nota gramsciana sulla “scuola delle cose”

Questa espressione — “gli umili” — è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della “letteratura per gli umili”. Non si tratta del rapporto contenuto nell’espressione dostoievschiana di “umiliati e offesi”. In Dostojevschij c’è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo, che magari è “oggettivamente” costituito di “umili” ma deve essere liberato da questa “umiltà”, trasformato, rigenerato. Nell’intellettuale italiano l’espressione di “umili” indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento “sufficiente” di un propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da “società protettrice degli animali”, o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.”  Antonio Gramsci

Quando mi intrappolo in discussioni infinite sul valore dell’alternanza scuola lavoro, mi verrebbe da ricordarlo, questo “sentimento sufficiente di una propria indiscussa superiorità” propugnato da alcuni del lavorio intellettuale rispetto a quello manuale. Come se le due cose potessero viaggiare separate in una persona autenticamente comunista. O, più banalmente, in una persona autenticamente progressista. Perché, nel rifiuto dell’alternanza scuola lavoro, spesso vi vedo più che un rifiuto dello sfruttamento del lavoro, un rifiuto del lavoro stesso, del fare, ma, soprattutto della cultura ad esso connessa.  

Sempre Gramsci scrive nei Quaderni: “La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio che pone contemporaneamente il bambino con la storia umana e con la storia delle “cose” sotto il controllo del maestro.

 

 

 

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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