Perche’ la chiamata diretta ha fallito. E perche’ e’ inutile
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Perche’ la chiamata diretta ha fallito. E perche’ e’ inutile

Perche’ la chiamata diretta ha fallito. E perche’ e’ inutile

di Francesco Rocchi.

La prima parte di questo articolo cerca di fare i conti della serva sui trasferimenti dei docenti italiani del 2017. Sono ragionamenti necessari, ma se si vuole capire perché un’idea buona  e innovativa come la chiamata diretta sia inutile, bisogna andare alla seconda.

Prima parte

Da qualche giorno hanno cominciato a circolare alcune analisi sulle modalità di trasferimento dei docenti nella tornata del 2017. Considerando che la cosiddetta “chiamata diretta” era una delle innovazioni più qualificanti della legge 107, è forse il caso di analizzare queste cifre e vedere se ci dicono qualcosa.

I dati che si possono reperire in rete più facilmente sono le elaborazioni della Cisl da una parte e del Sole 24 ore dall’altra.

La Cisl ha sottolineato come la gran maggioranza dei docenti in trasferimento, più dell’80%, abbia chiesto il trasferimento “su scuola” e non “su ambito”. Essere trasferiti “su scuola” significa entrare a far parte della dotazione organica di quella scuola, ricevendo una cattedra e tenendola fintantoché la cattedra esiste (ovvero se un’eventuale contrazione degli iscritti non la fa saltare). Nella chiamata “su ambito”, invece, ci si mette in un elenco a disposizione di tutte le scuole di un determinato circondario (l’ambito, appunto). Queste poi potranno scegliere chi assumere, pur non essendo obbligate a farlo, dato che possono anche non attivarsi e aspettare che la nomina la faccia l’ufficio provinciale in base alla graduatoria (overo l’elenco dell’ambito relativo). La chiamata diretta ha in questo caso valore triennale, rinnovabile.

Il Sole 24 ore ha per parte sua reso noto in quale percentuale i docenti inseriti negli ambiti (e quindi disponibili a farsi selezionare) siano stati scelti direttamente dalle scuole: il 30% circa. Un numero che il giornale giudica basso, tanto da dare la riforma per “affossata”. Per i neo-immessi le cifre invece sono un po’ diverse, e la percentuale di “scelti dalle scuole” arriva a quasi metà del totale, con una significativa differenza tra Nord e Sud (66% al Nord contro il 30% circa al Sud).

In soldoni, i docenti in trasferimento scelti direttamente dalle scuole sono un terzo del 20% residuo che non ha chiesto il trasferimento su scuole: arrotondando, il 7% dei trasferiti. Pochi, in effetti. Cosa è successo?

Il primo intoppo è stato dato dall’aver offerto ai docenti la facoltà di scegliere se essere trasferiti su scuola o su ambito. Quasi tutti hanno chiesto la scuola, perché la possibilità di doversi ri-trasferire nel giro di tre anni (sia pure in una scuola non lontana) non piace a nessuno. E’ vero che il governo ha sottolineato più volte che il rinnovo triennale è da considerarsi poco meno che un “pro-forma”, ma questa rassicurazione ha rassicurato poco. Se il governo dà la possibilità di allontanare un insegnante qualche preside la userà, hanno pensato i docenti, che peraltro hanno in media un’opinione piuttosto bassa dei dirigenti scolastici. Oltre a questo, chiedere trasferimento su scuola offriva un’altra sicurezza: qualora la scuola richiesta si rivelasse non disponibile, il docente sarebbe rimasto là dove era, senza cambiamenti. Se avesse chiesto l’ambito avrebbe saputo quale scuola lasciava, ma non in quale sarebbe andato a finire. Poco allettante anche questo.

Il governo, a fronte della forte opposizione sindacale, ha dovuto concedere una scappatoia che aveva immaginato residuale, e che invece ha confinato il nuovo sistema in un angolo. Non sono in grado di valutare se il governo abbia peccato di wishful thinking o se semplicemente non abbia avuto scelta.

Nelle immissioni in ruolo, dove non c’erano scappatoie, le scuole hanno avuto un margine ben maggiore, con quasi la metà dei neo-assunti chiamati su indicazione di una scuola. Ora bisogna vedere se le scuole riusciranno a trattenere gli insegnanti così selezionati, poiché nulla impedisce che i neo-assunti in ruolo facciano domanda di trasferimento dopo l’anno di prova, cercando anche loro di farsi assegnare “su scuola” (NB: è saltato il divieto triennale a chiedere trasferimento interprovinciale). La trafila tradizionale prevedeva di fatto che un insegnante prendesse la prima cattedra di ruolo disponibile per entrare nel “sistema”, salvo poi tentare di migliorare negli anni la propria posizione fino ad arrivare a quella ottimale. E’ probabile che continuerà ad essere così, sia pure con una gimcana un po’ diversa, se il doppio percorso continuerà ad essere disponibile.

Questa tornata di mobilità e di assunzioni, in sintesi, è stata assai faticosa, ma poco innovativa. Più ordinata della precedente, ma non esattamente quel che si immaginava. Finché il sistema rimarrà così arzigogolato e barocco, poco cambierà. La trafila per scegliersi un insegnante è burocraticamente impegnativa e faticosa, tanto che le scuole sono disincentivate a sottoporvisi, per due ragioni intrecciate tra loro.

La prima è che la scuola è la terra dei ricorsi amministrativi, e per un dirigente scolastico ogni scelta discrezionale (sia pure legittima) rischia di diventare un’ulteriore corona di spine in un Golgota di incombenze già abbastanza ampio.

La seconda è che tutta la fatica fatta per scegliersi autonomamente un docente potrebbe non valere la pena. Qui il discorso si fa un po’ più generale, ma non meno concreto, e ci porta alla seconda parte dell’articolo.

Seconda parte

Il senso di poter scegliere un docente piuttosto che un altro sta nell’idea che ogni cattedra abbia delle necessità specifiche che non tutti i candidati possono soddisfare, anche nell’ipotesi che siano tutti ugualmente bravi. Esistono queste necessità specifiche? Su di un piano meramente di principio, certo che esistono: se le scuole primarie e medie sono tutte uguali (per organizzazione e regole), le scuole tecniche, liceali e professionali sono assai diverse tra di loro sia per utenza che per materie insegnate. E ovviamente ci sono tutte le differenze territoriali e socio-economiche da considerare, a tutti i livelli.

Insomma, sì, la scuola è una di quelle istituzioni che più di tutte dovrebbero adattabili, elastiche e reattive. Il problema è che nell’organizzazione attuale della scuola italiana questi tre requisiti mancano del tutto, rendendo assai difficile ad un nuovo docente contribuire con le innovazioni che le sue specifiche competenze gli permetterebbero di introdurre.

Le leggi sulla scuola parlano quasi ossessivamente di autonomia e sarebbe ingiusto non riconoscere che le scuole oggi godono di qualche margine in più rispetto al passato, ma in concreto tante cose sono rimaste uguali. Gli elementi che ingessano la scuola sono ancora tutti quanti lì. Quali sono?

In sintesi: le Indicazioni Nazionali/Linee Guida insieme con i libri di testo, l’organigramma delle scuole privo di carriere interne, la mancanza di valutazione e di ricerca didattica, l’organizzazione quotidiana delle scuole e la cronica mancanza di fondi. Vediamo se qui di seguito riusciamo a sintetizzarne, almeno in parte, il profondo intreccio.

I programmi sulla carta non esistono più, ma sono ancora il punto di riferimento di più o meno tutti gli insegnanti. Questo per due ragioni: la presenza di commissari esterni alla maturità deprime fino ad uccidere la volontà di innovare la didattica, per il rischio di trovare qualche professore che valuti negativamente qualsiasi percorso “non ortodosso”. In secondo luogo, i docenti sono fortemente dipendenti dai libri di testo, anche quando li odiano con tutte le loro forze (come nel mio caso), per ragioni che ora sarebbe lungo spiegare. Le case editrici presidiano il mercato con mano ferrea, e in maniera estremamente conservatrice. Iniziative eccellenti come il Book in Progress, con docenti che i manuali se li scrivono da sé, sono ancora di nicchia. Nel frattempo, gli autori di alcuni dei manuali più in uso a scuola sono morti di vecchiaia da svariate generazioni, ma i loro testi ancora durano. Gli ex-programmi e i libri di testo, dunque, costituiscono un ostacolo per chi sta provando a modificare qualcosa della didattica.

La forza della tradizione nasce anche dal fatto che i docenti sono isolati. Ognuno è titolare della propria cattedra e agisce per proprio conto, senza rendere conto a nessuno. Se da un lato l’indipendenza di un insegnante è un fattore importante, dall’altro la sua solitudine fa sì che egli non abbia la forza per proporre dei cambiamenti reali, se non nella propria classe, e con tutte le limitazioni che stiamo vedendo. A queste bisogna anche aggiungere anche l’endemica stabilità degli insegnanti italiani, che rende difficile implementare cambiamenti di lungo periodo.

Oltre alla stabilità, per introdurre cambiamenti ed innovazioni con una qualche speranza di successo bisogna anche avere spalle larghe e credibilità. In una scuola in cui gli unici titoli sono l’anzianità e tutti sono sullo stesso piano, nessuno ha questi requisiti, se non per un informale prestigio personale. I dirigenti scolastici non hanno il potere di nominare quello che a quel punto sarebbe un docente senior. Se anche lo avessero, i DS non potrebbero mai essere in grado di esprimere giudizi competenti nell’intero spettro delle discipline insegnante in una scuola. La scuola, su questo, è semplicemente incastrata.

Ammesso poi che si sia chissà come riusciti ad individuare qualche docente che voglia  produrre una didattica alternativa, chi dovrebbe vagliare la validità dell’idea? Il DS lo abbiamo già escluso. I colleghi? Su quali basi? I docenti sono tutti pari grado e ve ne sono pochissimi in grado di valutare scientificamente delle innovazioni, soprattutto se profonde. Alle scuole, almeno nelle superiori, manca un dipartimento di valutazione interna e di progettazione didattico-scientifica. Quand’anche vi fosse, l’inquadramento giuridico-contrattuale attuale gli impedirebbe di prendere decisioni vincolanti sulla didattica degli altri docenti, o di valutarne l’operato (cosa che peraltro è anche in parte giusta così). Ad oggi, inoltre, dirigenti scolastici e colleghi hanno un’idea assolutamente vaga ed incerta di quello che avviene nelle classi di un docente. Quel che si sa di un docente viene sempre e solo dal sentito dire, con esiti spesso devastanti. Non c’è tracciabilità, osservazione o discussione di sorta. Ciò scoraggia chiunque porti con sé un profilo professionale nuovo e diverso, ovviamente.

Per completare il quadro bisogna ricordare che l’organizzazione della scuola italiana è men che mediocre: ritardi, assenze, vacanze, scrutini, gite, prove di valutazione e giù giù fino ai permessi per il bagno, tutto è organizzato su una routine vecchia di decenni, e non si vedono cambiamenti. Così come se ne vedono pochi nella dotazione materiale delle scuole, anche se i governi di centro-sinistra degli ultimi anni, soprattutto quello di Renzi, hanno ricominciato a spendere soldi sull’istruzione pubblica. Le innovazioni didattiche portano con sé anche innovazioni materiali: proiettori, computer, LIM e laboratori diventano essenziali. E devono essere non solo presenti, ma ben manutenuti e disponibili. Al riguardo, l’esperienza mia e dei miei colleghi, per quanto aneddotica, è disperante. Le classi italiane sono ancora povere, rumorose (per mancanza di insonorizzazione) e poco rifornite. Innovare in un ambiente così povero è arduo.

Spero di aver illustrato con sufficiente chiarezza come questi elementi conducano verso l’uniformità, non verso la valorizzazione delle caratteristiche peculiari di ogni docente. E se le cose stanno in questi termini, affaticarsi per scegliere un professore piuttosto che un altro tende a perdere di significato.

Il sistema dell’istruzione italiana, burocratico e napoleonico, è stato costruito sul principio dell’omologazione. Avervi applicato numerose toppe e modifiche non lo ha snaturato. La scuola italiana oggi è come una vecchia Cinquecento su cui siano stati montati tutti gli accessori di una Ferrari nuova. E’ piena di cose bellissime -la chiamata diretta è una di queste, insieme con l’organico di potenziamento-, ma il motore rimane lo stesso, e non andrà mai a 200 km/h.

 

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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