La scuola superiore quadriennale
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La scuola superiore quadriennale

La scuola superiore quadriennale

di Francesco Rocchi (con in calce un’intervista al prof. Valerio Bernardi)

Sta per partire in cento classi di altrettante scuole una sperimentazione che, qualora desse mostra di funzionare, porterebbe a dei cambiamenti radicali all’interno della scuola superiore italiana. Quella del liceo quadriennale però non è un’idea nuova, sia perché il riordino dei cicli è un evergreen del dibattito scolastico-pedagogico italiano (che ha la tendenza a ripetersi, data la fatica di introdurre seri cambiamenti di sistema in tempi men che biblici), sia perché in realtà una sperimentazione in tal senso, anche se su scala assai più piccola, è già avvenuta (con coté di polemiche e carte bollate anche all’epoca, immancabili).

Nonostante la pausa estiva, sull’argomento c’è già stato un ampio dibattito. Cerchiamo quindi di passare in rassegna gli elementi salienti che sono emersi, tra intenzioni, ipotesi, critiche e possibili suggerimenti. Si tralascerà di discutere alcune delle obiezioni più barricadere ma meno sensate, come quella del “risparmio”: sarebbe ben curioso che il governo che ha assunto più di centomila professori ora decidesse di tagliare cattedre con mano da boscaiolo. E’ uno scenario tanto illogico che si commenta da sé e può essere serenamente lasciato perdere. Uno dei primi e principali argomenti addotti a favore dal Ministero è sull’età dei diplomati. Con soli quattro anni di liceo, gli studenti uscirebbero dalle superiori a 18 anni, recuperando un anno che poi, in prospettiva, permetterebbe loro di laurearsi anche un anno prima rispetto ad ora, o comunque di arrivare prima sul mercato del lavoro. In realtà, questo è un argomento debole per varie ragioni.

La prima è che il diploma a 18 anni non sembra essere proprio una regola ferrea cui solo l’Italia si sottrarrebbe. In Finlandia, il Paese che meglio ha figurato nelle rilevazione OCSE-PISA negli ultimi anni, si finisce a 19 (cominciando a 7), così come in diversi Laender tedeschi e in tanti altri Paesi, almeno per quanto riguarda l’istruzione di tipo “liceale” propedeutica all’università. Certo, anche senza un trend chiaro in tal senso si può legittimamente decidere di allinearsi ai Paesi che chiudono l’istruzione secondaria a 18 anni, ma bisogna fare attenzione: in UK si finisce a 18 anni, ma si comincia a cinque o addirittura a 4. Identica situazione in Olanda, che generalmente si pone anch’essa nella parte alta della classifica OCSE-PISA. Non troppo diversa la situazione degli Stati Uniti, che chiudono a 18 anni ma hanno a cinque il cosiddetto Kindergarten, il quale, pur non essendo parte dell’istruzione obbligatoria, è un ottimo viatico per l’istruzione successiva, dato che si comincia già lì a prendere confidenza con alfabeto e aritmetica.  E’ anche vero che l’anticipo di un anno potrebbe avere un valore assoluto talmente grande in sé da giustificare la perdita di un anno. Ci si lamenta spesso che i laureati italiani sono più vecchi dei loro omologhi stranieri, e quindi meno competitivi. Un anno in meno potrebbe restituirgli un po’ di sprint, forse.

A questa ipotesi ha risposto Andrea Gavosto della Fondazione Giovanni Agnelli, che pure è possibilista rispetto ad un liceo quadriennale: se i laureati italiani sono mediamente “vecchi” non è per colpa della scuola, ma dell’altissimo tasso di studenti fuori corso, questo sì veramente anomalo.  Se i termini della questione fossero questi, e se davvero avere matricole universitarie diciottenni fosse per noi così dirimente, la soluzione più logica e semplice sarebbe quella di anticipare l’età della prima elementare a cinque anni, e lasciare tutto il resto intatto: niente taglio degli anni e limite dei 18 anni raggiunto. Ci sarebbe qualche problema organizzativo con la coorte che dovrebbe accogliere cinquenni e seienni, ma nulla che non si potrebbe risolvere senza drammi. Tutti contenti così, allora? Potrebbe essere dunque questa la quadra che soddisfa ogni parte in causa? Forse, ma ci sono alcune questioni che vanno comunque affrontate: che si sia favorevoli oppure no, quella che si sta avviando è una sperimentazione. Questo vuol dire che la scuola italiana ha una succosa occasione per guardarsi dentro in maniera analitica, attenta, scientifica e priva di improvvisazione. A prescindere dagli esiti, una sperimentazione è qualcosa di positivo per se.

Il ministero ha spesso sottolineato come il successo di questa sperimentazione passi per l’innovazione didattica, anche se non è del tutto chiaro il legame “strutturale” tra l’innovazione didattica e la quadriennalità. E’ da ben prima che si parlasse di superiori quadriennali, ad esempio, che si preme per il CLIL, per la didattica laboratoriale e per tante altre riforme pedagogico-didattiche che funzionerebbero benissimo anche sull’arco dei cinque anni. Perché legarle specificamente al liceo quadriennale? Una possibile risposta è che se davvero bisogna fare in quattro anni quel che prima si faceva in cinque, e farlo bene, bisogna ottimizzare ogni momento e aspetto del processo educativo. In questo senso, la superiore quadriennale si configurerebbe quasi come il modo del ministero di introdurre nella scuola un vero processo di efficientamento, con un approccio quasi un po’ kaizen (parola con cui la Toyota indica indica il metodico perfezionismo con cui monitora ogni propria attività). Non mi dispiacerebbe, come ho già avuto modo di dire. Rimarrebbe il fatto che cinque anni sarebbero ancora meglio di quattro, ma almeno avremmo svecchiato un po’ la didattica italiana.

La portata di questa possibile apertura all’innovazione, però, rischia di essere intaccata da un provvedimento che sembra fatto apposta per tacitare le prefiche della “svendita dell’istruzione” e rassicurare famiglie e docenti: il monte ore dell’anno “perduto” sarà spalmato sui quattro anni precedenti (o così sembrerebbe evincersi da quanto emerso, almeno secondo Repubblica), mentre l’Esame di Stato rimarrà assolutamente identico a quello degli altri studenti. Da ciò consegue che il percorso scolastico rimane soggetto alle Indicazioni Nazionali e alle Linee Guida. Non è un buon viatico per l’innovazione: tra i vari problemi che le innovazioni didattico-pedagogiche incontrano in Italia c’è il fatto che questi documenti, che servono a fornire alla scuola la base per la programmazione didattica, sono ancora molto vincolanti e non danno modo di valorizzare cambiamenti e migliorie. Insieme col vincolo della presenza dei commissari esterni all’esame, pochi si azzarderanno ad inserire cambiamenti profondi nella didattica, nel timore che gli studenti debbano poi affrontare un commissario esterno tradizionalista che valuti negativamente un lavoro diverso o comunque non del tutto aderente a quello prospettato dai documenti ministeriali (in particolare le Indicazioni, che riguardano i licei).

Insomma: se il monte ore, i programmi la valutazione e l’articolazione delle materie rimangono identici, all’innovazione didattica rimane uno spazio asfittico, con per soprammercato i ritmi più alti e i carichi di lavoro più pesanti. Molte delle innovazioni previste, peraltro, sono già state introdotte nella scuola italiana, quasi sempre con grandi difficoltà e pochi risultati. Il CLIL cui si accennava prima, ad esempio, ha sofferto di una tale superfetazione di lungaggini burocratiche che ad oggi è ben difficile immaginare che abbia avuto un forte e diffuso impatto positivo sulla preparazione degli studenti. La mancanza di professori formati, la necessità di non intaccare “i programmi”, i limiti della didattica della lingua straniera e la scarsità di professori non di lingue con le giuste capacità linguistiche hanno strozzato questa innovazione. Cosa porta a pensare che nelle superiori di quattro anni andrà meglio? Lo stesso discorso si può estendere alla ASL, e a qualsiasi altra innovazione che richieda un ripensamento delle forme tradizionali del governo e della routine della scuola, a cominciare dalle competenze digitali, su cui grava anche la cronica sotto-dotazione strumentale della scuola italiana.

A prescindere da queste considerazioni metodologiche è poi possibile sollevare un’ulteriore critica sistemica. L’Italia ha un sistema di istruzione tripartito, con le scuole primaria, media e superiore nettamente separate. Ogni passaggio da una scuola all’altra implica un grosso scossone per gli studenti, con cambi radicali sia nel metodo di studio sia nella quotidianità scolastica. In questo complicato percorso, che non nasce da un progetto educativo organico ma da riforme tanto meritorie quanto incompiute (come la media unica nel 1962), la scuola media, come rilevato da un rapporto FGA del 2011, è quella più in sofferenza, con cali dell’apprendimento vistosi.  Le ragioni di questo calo sarebbero ora troppo lunghe da esaminare, ma in senso generale parrebbe ragionevole che se si ritiene necessario riformare i cicli e diminuire di un anno la carriera scolastica, potrebbe essere più utile tagliare non le superiori, ma la media, anzi, sopprimerla del tutto, aumentando di due anni la primaria, o di un anno tanto la primaria quanto la secondaria. In questo modo la scuola durerebbe un anno di meno, ma procederebbe con meno fratture e con una maggiore propedeuticità degli apprendimenti (spesso si è rimarcato quanto sia ripetitivo lo schema tripartito attuale). Si avrebbe anche una maggiore personalizzazione del percorso scolastico: in uno schema 6+6 o 7+5 (ma volendo anche 8+5 o 7+6, ovvero senza il taglio di un anno) non ci sarebbero i tre anni di limbo attuali, in cui i professori accolgono studenti che non hanno formato e che lasceranno relativamente presto, senza poter avere una presa forte sul progetto formativo complessivo degli studenti.

Il diffondersi di istituti comprensivi, forse stimolato da ragioni di risparmio, sembra anche fornire un incentivo a questa soluzione. Al netto delle critiche, rimane da sottolineare l’aspetto più positivo dell’iniziativa, cui già si accennava più sopra: per la prima volta ci sarà una procedura strutturata e nazionale per osservare e valutare la didattica direttamente nelle scuole, cosa finora mai avvenuta, se non parzialmente grazie all’Invalsi. E a proposito di Invalsi, si spera che tale istituto, il più qualificato e competente sulla valutazione di un sistema scolastico, possa essere coinvolto organicamente e sistematicamente. In attesa di tutto ciò, sarebbe una buona idea anda a vedere i risultati della sperimentazione condotta finora in 12 scuole, per quanto poche. La ministra Fedeli non sembra nutrire molta fiducia nei dati ricavabili da queste scuole, ma allo stato attuale queste 12 scuole sono le uniche ad aver già fatto il percorso che ora si vuole creare. Siccome sarebbe quantomeno bizzarro aver avviato pur piccola sperimentazione per poi farla cadere nel nulla, sarà il caso di concludere quell’esperienza leggendone i dati emersi.

 

 

L’INTERVISTA AL PROF. VALERIO BERNARDI

Nella speranza che l’analisi venga fatta, abbiamo raccolto le impressioni del prof. Valerio Bernardi, insegnante di filosofia del Liceo Classico Orazio Flacco di Bari, ovvero una delle dodici scuole coinvolte nella sperimentazione del 2014:

1) Come è stata affrontata la rimodulazione dei “programmi”?

Quando è stata fatta la proposta al nostro liceo, il Dirigente ha deciso di convocare una commissione tecnica in cui fosse discussa la rimodulazione dei programmi. La commissione è stata aperta a tutti i docenti che volevano essere disposti ad accettare la sfida. Il punto di partenza dovevano essere le indicazioni nazionali vigenti, ma si è cercato di fare un lavoro dove le competenze, le abilità e i contenuti fossero tenuti distinti, riprendendo in questo il modello delle competenze di base del decreto Fioroni. I problemi maggiori sono stati per quelle discipline (come latino, greco, storia, matematica) che si snodavano per cinque anni. Si è scelta una soluzione in cui il secondo anno era di raccordo. Infatti, guardando anche il quadro orario, ci si rende conto che la conformazione delle discipline è tale che al secondo anno sono inserite tutte le discipline del triennio. Il problema non si è posto per le lingue straniere in quanto, in particolare l’inglese, è stato anche rafforzato dal CLIL. Il Francese era una vera e propria aggiunta al curriculum. I programmi sono stati approvati dal Comitato scientifico che è stato istituito dall’Ufficio Scolastico Regionale.

2) Come hanno reagito i ragazzi, e su quali basi hanno detto di aver scelto il liceo quadriennale?

L’analisi delle scelte dei ragazzi (ma diciamolo, soprattutto dei genitori) è stata diversificata. Il primo anno i genitori che hanno scelto questo tipo di percorso lo hanno fatto perché lo hanno visto come un percorso di eccellenza. Non mancava anche l’interesse per la fine anticipata degli studi. L’internazionalizzazione con il rafforzamento delle lingue è stata anche un’altra delle motivazioni. La velocizzazione del percorso di studi penso sia diventata importante soprattutto negli anni successivi più che nel primo anno (quello che quest’anno terminerà il corso di studi). I ragazzi si sono resi anche conto, però, che il carico di lavoro richiesto (data la modulazione dell’orario settimanale a 36 ore) poteva essere maggiore e rendere quegli anni più impegnativi di quelli di un percorso tradizionale.

3) In quale modo hanno invece reagito i docenti?

I docenti della scuola hanno reagito in maniera diversificata. Va detto che la sperimentazione è dovuta passare per l’approvazione del Collegio dove la larga maggioranza degli insegnanti (direi circa i due terzi) ha votato a favore. Coloro che si sono impegnati anche nella stesura dei programmi e nell’insegnamento lo hanno visto anche come una sfida a migliorare la propria operatività, a innovare nelle metodologie e ad insegnare in un corso sperimentale. Non sono mancati gli oppositori che hanno continuato ad avere un’idea sospettosa ed ostile.

4) In che modo avete monitorato l’andamento della sperimentazione?

Il monitoraggio del liceo è stato abbastanza sistematico. A parte le riunioni interne delle commissioni ed anche l’idea di avere un coordinatore di tutto il programma che riunisse periodicamente gli insegnanti e che li consultasse, l’Ufficio Scolastico Regionale ha istituito un Comitato Tecnico Scientifico che si riunisce almeno due volte l’anno e che ha il compito, insieme ad alcuni insegnanti del Liceo, di valutare l’andamento della sperimentazione. Il Comitato è costituito da due Ispettori tecnici, da docenti universitari dell’Ateneo barese e da alcuni docenti comandati all’USR, oltre che dal Dirigente scolastico e da alcuni docenti che insegnano la sperimentazione e che rappresentano le principali discipline (sono in genere presenti un docente di materie letterarie, uno di storia e filosofia, uno di matematica ed uno di lingue). L’incontro di fine anno è dedicato ad un confronto con gli stessi studenti e con le loro famiglie e si svolge direttamente nell’Istituto.

5) Avete individuato già punti di forza e punti deboli?

Dopo tre anni di sperimentazione, benché non siamo ancora in possesso dei risultati finali, possiamo fare un primo bilancio. Gli studenti che frequentano questo tipo di corso hanno sicuramente migliorato, rispetto agli studenti dei corsi tradizionali, le cosiddette soft skills, ovvero hanno una buona conoscenza di almeno una delle due lingue straniere insegnate, hanno anche una esperienza internazionale notevole, in quanto hanno anche effettuato una buona parte delle ore di alternanza scuola-lavoro all’estero. Le discipline tradizionalmente orali non riscontrano problemi di sorta e, a bilancio quasi finale, gli studenti hanno acquisito conoscenze e competenze paragonabili a quelli che sono pronti per l’ultimo anno nel corso tradizionale. Dovremo vedere cosa succede nelle performances delle due discipline tradizionali dell’indirizzo classico nelle prove scritte che faranno agli esami di stato. A mio parere si sarebbe dovuta cambiare anche la tipologia dell’esame, ma sino ad ora non sembrano essere questi gli orientamenti del MIUR. Per quanto riguarda i punti deboli direi che la mancanza di finanziamenti ad hoc è una delle pecche. Abbiamo anche avuto problemi talvolta con gli organici delle compresenze che abbiamo ritenuto indispensabili anche per recuperare parte del gap dovuto alla mancanza di un anno e non abbiamo alcun tipo di finanziamento né per insegnanti di madrelingua o per stage all’estero che sono pagati direttamente dai genitori.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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2 comments

  1. forse era meglio l’idea di abolire le scuole medie, piuttosto che ridurre di un anno le superiori.

    Sandro Curti
  2. oTTIMO ARTICOLO MA MANCA SECONDO ME IL PUNTO DI VISTA “MACROECONOMICO”: il dibattito sulla riduzione dei cicli scolastici di un anno (che personalmente vedo come sperimentazione e proposta positiva) non va disgiunto dal dibattito sull’incremento dell’accesso dei ragazzi all’universita’. In un sistema-paese in cui il 40%, 45% dei ragazzi va all’universita’ (invece dello sconcertante 26% attuale), DIVIENE PIU’ PLAUSIBILE che la scuola (superiore o media) duri un anno di meno. In un sistema di questo TIPO, il ciclo universitario triennale ASSOMIGLIA UN PO’ PIU’ AD un “superliceo” de facto. dopo i 4 anni di SCUOLA SUPERIORE COMINCIA PER QUASI LA META’ DEI RAGAZZI la laurea triennale

    Raoul Minetti

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