Cavour: piemontese, europeo, italiano
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Cavour: piemontese, europeo, italiano

Cavour: piemontese, europeo, italiano

di Alessandro Venieri.

In un paese strano, quale d’altra parte il nostro è, può capitare che le celebrazioni per la nascita di Cavour del 10 agosto passino ogni anno sotto traccia, e che poco o nulla si discuta della sua figura quando contestualmente viene sempre più prepotentemente sottoposta al fuoco di fila di tanta storiografia nazional-­‐popolare spicciola la sua opera più importante, ovvero l’unificazione della penisola italiana.

Un destino curioso a maggior ragione se si considera la statura eccezionale del politico piemontese, riconosciuta sia in Italia, che in Europa e nel mondo.
Ennio Di Nolfo, il più grande esperto italiano di storia delle relazioni internazionali, ha definito Cavour in un suo scritto quale “il più grande statista italiano del XIX, del XX e del XXI secolo”, mentre lo storico e scrittore inglese Denis Mack Smith, autore di una sua agile biografia, sottolineava la sua grandezza aggiungendo che “nessun uomo politico del suo secolo
– certamente non Bismarck – è riuscito a fare così tanto con così poco”.

La vicenda di Camillo, Conte di Cavour, è stata esaminata nel corso degli ultimi centocinquant’anni da varie prospettive, che hanno messo in luce successivamente il suo profilo rispettivamente di politico, imprenditore, scrittore e giornalista, uomo di mondo. Solo negli ultimi tempi ci si è interessati in maniera più specifica alla natura di respiro propriamente europeo del Conte, che salta agli occhi anche solo prendendo per mano le sue biografie più importanti (in primis quella di Romeo, ma anche iCafagna dedica un intero capitolo a tale questione), o sfogliando le sue lettere e i suoi diari.

Sin dalla nascita, Cavour è un ibrido: è figlio in effetti di padre piemontese e madre svizzera di Ginevra e sua lingua madre è il francese, che per tutta la vita utilizzerà nei suoi zibaldoni, come anche nei suoi numerosi e sparpagliati diari.
L’italiano lo apprenderà sin da giovane ma si dirà sempre incerto e poco sicuro del suo utilizzo, giungendo ad una dizione corretta e ad un nitore espressivo di un certo livello solamente durante gli anni dell’impegno politico attivo (1848-­‐1861).

Sin dalla tenera infanzia si ritroverà dunque a dover dividere la propria vita tra la Savoia, il Piemonte e il Ginevrino, condividendo con alcuni grandi statisti europei del secondo dopoguerra il destino di essere nato in una terra di confine.
Con il correre degli anni Cavour, caso unico tra i grandi statisti e politici italiani, svilupperà un amore particolare per le scienze matematiche ed in seguito per quella scienza dell’economia politica che rimarrà sua attenzione e cura principale fino all’età più matura.
Le lettere, dove l’immagine di un’Italia unita per prima aveva messo radici ed era fiorita, troveranno invece in lui una tiepida attenzione, distinguendolo anche qui da tutta una tradizione di figure politiche “letterate” della nostra politica.

Un tale orientamento intellettuale e culturale, che gli faceva preferire ai vari Foscolo, Alfieri e Petrarca uno Smith, un Bentham e un Ricardo, inciderà fortemente sulle sue visioni politiche e sull’idea di Italia che doveva formarsi nella sua mente.
E allo stesso tempo questo suo pantheon ideale lo spingeva al di là delle Alpi, lontano da Torino da lui considerata un vero e proprio “deserto culturale”.
Lontano, si può aggiungere, anche dal resto d’Italia, che d’altra parte visitò solamente in una minuscola frazione, senza mai allontanarsi dalla pianura padana, senza mai vedere le bellezze artistiche di Firenze, Roma o Napoli.
Non sorprende affatto che la penisola apparisse nella mente del Cavour quale un mosaico non

di sapori, di dialetti, di monumenti o di luoghi dell’anima (“eterotopie”, detto à la Foucault), quanto piuttosto un paese disposto secondo l’immaginario pragmatico di un costruttore di strade ferrate (“Des chemins de fer en Italie”, 1846) o un’entità economica tratteggiata sulla base del vantaggio comparato goduto dalle industrie naturali dei diversi territori, in un succedersi di dazi, prezzi e tariffe (“Dell’influenza della nuova politica commerciale inglese”, 1847).

Se la scienza economica la andò ad apprendere presso la scuola britannica, allo stesso tempo l’arte della politica preferì attingerla dall’alta tradizione francese: ad un Machiavelli di certo anteponeva un Montesquieu, un Constant ad un Guicciardini.
E di politica, d’altra parte, aveva occasione di parlare solamente a Ginevra, durante le brevi visite ai parenti De la Rive e Sellon, in ambienti della piccola nobiltà che nonostante il proprio conservatorismo non disdegnavano di esercitare in maniera affatto libertina quel vizio del moderatismo che non trovava quasi alcun riscontro presso i circoli subalpini.

Ma oltre Ginevra si apriva la strada per Parigi, vero punto di riferimento continentale all’epoca, centro di quella Francia di Luigi Filippo che fino al 1848 rappresentò la massima espressione della moderazione politica per Cavour, incarnata dalla figura di François Guizot; a Parigi Cavour si recò molte volte, a cominciare dal 1835, e si ritrovò a frequentarvi i migliori salotti e le aule della Sorbona, dove ebbe modo di ascoltare dal vivo Chevalier e di interloquire con Thiers.

Sempre nel 1835, dopo Parigi, ebbe modo di visitare il Regno Unito, che visitò poi in altre occasioni (nel 1843 e nel 1852). Londra lo accolse nei propri salotti, dove ebbe modo di affinare la conoscenza delle lingua inglese e dove venne in contatto con alcuni eminenti intellettuali e politici della sua epoca: Chadwick, Cobden, Nassau Senior, Tocqueville.
A Londra venne definitivamente contagiato dalle idee del libero scambio e da allora in poi non smise per tutto il resto della sua vita di interessarsi continuamente alle vicende politiche ed economiche d’Albione.
Vorace lettore dell’Economist e del , lo storico Rudman definì Cavour “ancor più inglese degli inglesi”, mentre a Torino si prese a tacciarlo, nei circoli intellettuali e politici, quale un vero e proprio “anglomane” e sbeffeggiato in occasione della sua elezione a deputato nel 1848 con il nomignolo di “milord” da parte della Sinistra di Rattazzi.

Cavour, da parte sua, ammirava enormemente il Regno Unito quale esempio di grande pragmatismo politico, un paese in cui “si parla meno ma si fa molto più che da noi” e pedissequamente, quando si trattava di difendere in parlamento determinate svolte, in particolare l’apertura al libero commercio tra il 1850 e il 1852 e le Leggi Siccardi riguardanti la regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa, Cavour non esitava a porre come termine di paragone l’esperienza inglese.

In particolare poi, gli eventi congiunti dell’abolizione delle leggi sul grano del 1846 a Londra e la caduta del regno di Luigi Filippo nel 1848, lasciarono il Regno Unito quale unica stella polare della sua azione politica ed economica, unico paese in cui le verità della scienza dell’economia politica si erano tradotte in realtà grazie al glorioso sacrificio politico di Sir Robert Peel, che definiva in uno scritto del 1850 in occasione della sua morte “ideale degli statisti del partito moderato”.

Dai suoi viaggi, che interessarono oltre a Svizzera, Francia e Regno Unito anche il Belgio, la Germania, l’Austria, dovette ricavare sicuramente una forte impressione del nuovo, straripante contributo che l’opinione pubblica aveva da giocare nell’agone politico.
Furono certamente le sue esperienze all’estero che gli fecero comprendere come il suo impegno politico potesse esprimersi innanzitutto attraverso l’attività giornalistica; in quest’ottica può essere compresa anche la fondazione del quotidiano “Il Risorgimento” nel 1847, assieme a Cesare Balbo.

Il Cavour giornalista e scrittore di opere di economia e politica (spesso non sufficientemente studiato e compreso) si occupa estesamente di questioni estere, con una predilezione in particolare per la Francia e il Regno Unito.
Si consideri a titolo di esempio la sua prima opera in assoluto, scritta nel 1835 in francese, relativa al rapporto del Commissario regio inglese sui proventi delle tasse sui poveri in Inghilterra; oppure l’opera che gli diede la prima fama, soprattutto a Londra, di fine osservatore economico e politico, le “Considérations sur l’état actuel de l’Irlande et sur son avenir”, del 1844, o ancora “Le scelte politiche e finanziarie della Repubblica francese”, del 1848.

Il carattere europeista della formazione e della cultura del Cavour contribuì in maniera determinante alla serie di eventi che portarono all’unificazione della penisola tra il 1859 e il 1861.
Il credito che riuscì a guadagnare sin dalla sua esperienza di Ministro dell’agricoltura del commercio e della marina tra il 1850 e il 1852, in sostituzione del deceduto amico Pietro di Santarosa (che peraltro lo aveva accompagnato in occasione del viaggio all’estero del 1835), lo si deve soprattutto per l’abilità con la quale riuscì ad estendere a dismisura i rapporti con le potenze europee, per tramite di trattati di commercio e navigazione.
Il viaggio del 1852 gli servì per preparare la sua ascesa alla Presidenza del Consiglio, per stabilire nuovi rapporti con francesi e inglesi, e per guadagnarsi il rispetto e l’approvazione che ancora sentiva di non avere catturato in determinati ambienti.

Gli eventi che portarono all’unità, nell’arco di 9 anni, ci parlano di un uomo dalle capacità diplomatiche e dall’acume politico impressionanti, capace di ottenere qualcosa che quasi sicuramente egli stesso non aveva pensato possibile.
Ma ancora, e vale la pena dirlo, l’unificazione della penisola non fu – checché se ne dica – un evento sovrano italiano: il Regno di Sardegna era sullo scacchiere internazionale uno Stato a sovranità molto più che limitata.
E Cavour era il primo a riconoscere questa realtà ed era stato il primo ad aver capito che occorresse giocare sulle rispettive rivalità e sulla dinamica degli equilibri variabili del continente per riuscire ad ottenere ciò che i Savoia e i loro uomini, da soli, non avrebbero mai saputo ottenere. Fu soltanto sottoponendo alle maggiori potenze dell’epoca, a partire dalla Conferenza di Parigi, la questione italiana quale problema europeo che riuscì a smuovere una situazione destinata apparentemente ad una stasi senza fine.

Cavour fondò il suo successo sulla propria credibilità estera, guadagnatasi quale liberale dal pedigree inattaccabile e anzi garante della stabilità dello stato piemontese. Il primo ministro giocò e si servì dell’arcaica ricerca di prestigio di Vittorio Emanuele, dell’ ambizione sempre frustrata da grandeur dell’Imperatore dei francesi e del desiderio inglese di vedere un continente stabilizzato e privo di egemoni.

Il Piemonte che arrivò all’appuntamento della seconda guerra di indipendenza era in buona parte uno stato liberale, pur con tutti i limiti che sono stati evidenziati da svariati ed eminenti studiosi, che individuarono spesse volte nel Connubio il primo embrione del trasformismo all’italiana (uno fra tutti Gramsci).
È da sottolineare che comunque una attribuzione retroattiva al “juste milieu” cavouriano delle qualità negative e sclerotizzatesi del “compromesso senza riforme” identificato da Barca quale modello degenere di involuzione italiana nel secondo novecento, non regge al confronto dei risultati.
Preoccupazioni di Cavour erano soprattutto il tipo e la qualità della nuova struttura statuale, improntata a quella piemontese, che venne aggiornata e riformata anche come “valore in sé e per sé, come strumento di europeizzazione e di modernizzazione di un’Italia languente da due o tre secoli nella retroguardia del moderno mondo europeo.” (G. Galasso)

Le riforme attuate da Cavour riuscirono, per un certo periodo, a rendere il Regno di Sardegna e il novello Regno di Italia esempi di buon governo e saggia amministrazione, privi di dogane interne, con grandi progetti infrastrutturali pubblici (le ferrovie, nella visione di Cavour, potevano fare una nazione più di usi, costumi e lingua), con leggi miranti ad alleviare le situazioni di disagio legate alla povertà e una netta divisione tra questioni di Chiesa e questioni di Stato.
Il nuovo stato, di impronta cavouriana, era stato accolto all’estero con un sospiro di sollievo (per le mancate derive insurrezional-­‐democratiche) e grida di giubilo da parte delle schiere liberali europee, tanto che l’Italia “nel 1861 era stata fra tutti il paese più ammirato dagli uomini politici liberali” (D. M. Smith).

L’Italia, per volere di Cavour, era stata fondata sull’esempio di quelli che per il Conte erano i due paesi più floridi e avanzati del mondo, Francia e Regno Unito: questo dovrebbe essere tenuto in conto da tutti coloro che ancora oggi tendono a derubricare come esterofilia quella che è, al contrario, un semplice esercizio di autocritica che tutti dovrebbero esercitare, in particolar modo coloro che non possono vantare di essere i primi della classe.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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