Teach like a Champion di Doug Lemov
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Teach like a Champion di Doug Lemov

Teach like a Champion di Doug Lemov

di Francesco Rocchi

Un po’ in ritardo mi sono procurato una copia di questo manuale di didattica pratica che nel mondo anglosassone è ormai da anni il libro di riferimento nel campo. Da noi è ancora, per quel che mi consta, piuttosto poco noto, ma la traduzione italiana indica che sicuramente un minimo di interesse per questo libro vi dev’essere anche da noi.

E’ senz’altro una lettura stimolante. Io mi sono lanciato subito sui capitoli che mi premevano di più, ovvero quelli relativi alla gestione della classe e alla disciplina, ma questo libro è interessante in primo luogo per l’approccio “di sistema” che suggerisce -cosa curiosa, questa, se si considera che in realtà il libro è impostato come una serie di consigli pratici e cerca a tutti i costi di evitare vaghezze ed astrazioni.

Inizialmente il mio entusiasmo era alle stelle. Man mano che sono andato avanti con la lettura dei vari stratagemmi didattici ho cominciato invece ad avere dei dubbi (che più avanti illustrerò). Alla conclusione della lettura, il mio bilancio vede infine in questo manuale uno strumento sicuramente utile, ma non la pallottola d’argento che risolverà tutti i miei problemi con la didattica. Quest’affermazione può sembrare assai scontata, ma si spiega sia con l’enorme hype che circonda questo manuale sia con i tonici decisamente enfatici del libro stesso.

L’idea di Doug Lemov è semplice: insegnare è una tecnica che si può modellizzare, sistematizzare, diffondere e insegnare. La capacità di insegnare, benché bisognosa di talento, non è un dono o una capacità innata, bensì qualcosa che si può acquisire consapevolmente. Ed è quindi qualcosa che si può mettere su carta -questo libro.

La materia prima su cui si basa tutto è il tempo: essendo drammaticamente poco, in America come in Italia o in qualsiasi altro posto, il tempo deve essere destinato a tutte le attività che fanno imparare meglio e di più, mentre tutte le attività inutili devono essere eliminate. Con questo Lemov non vuol dire che bisogna fare tutto di fretta, ma che è necessario programmare ogni cosa, scandire bene i tempi e razionalizzare ogni minimo passaggio. La razionalizzazione di Lemov non trascura nulla, e questo è allo stesso tempo sia  il suo principale pregio sia il suo peggior difetto: le pagine in cui, ad esempio, Lemov disserta su come accorciare di qualche secondo i rimproveri (e recuperare tre o quattro secondi ogni volta) sono sicuramente d’ispirazione, ma anche piuttosto ansiogene. In altri casi, i consigli di Lemov non sono altro che buon senso spicciolo che gli insegnati applicano già da sé, ma questo non è un difetto: il buon senso rimane buon senso anche nel XXI secolo.

Il passaggio successivo per un tale successo organizzativo è avere studenti che rispondono positivamente ad un efficientismo così spinto. Questo è uno dei punti più delicati, e Lemov ne è perfettamente consapevole, ragion per cui l’attenzione alla costruzione di un’adeguata attitudine è continuamente ricorrente. Per il lettore italiano il punto è ancor più importante perché molte cose che Lemov dà per facilmente fattibili o scontate non lo sono affatto nella scuola italiana. In questo senso il libro è particolarmente utile come pietra di paragone con cui confrontare la nostra didattica.

Le classi degli insegnanti di Lemov (responsabile di una rete di scuole indipendenti negli USA chiamate “Uncommon Schools”) sono abituate ad essere partecipative, sensibili ai complimenti (misurati e mirati), attente ai rinforzi positivi e capaci di coltivare una sana “cultura dell’errore” in cui i passi falsi e le difficoltà sono visti non come fallimenti da evitare ma come occasioni di miglioramento (secondo quel “growth mindset” su cui Carole Dweck ha scritto un libro giustamente celebre). Nelle classi di Lemov gli insegnanti instaurano routine positive che permettono di risparmiare tempo, avviare rapidamente il lavoro di classe, terminarlo nei tempi dati e impostare delle valutazioni adeguate. Il tutto è esemplificato nello slogan “No excuses”. Agli studenti non è dato di cincischiare, non dare risposte, svicolare o perdersi in sogni ad occhi aperti. Per ottenere questo, ogni classe deve avere il suo orologio, l’insegnante deve dare tempi di lavoro precisi (evitando cifre tonde come “cinque minuti” per non dare l’impressione di essere generici e troppo elastici), inizio e e fine del lavoro devono essere scanditi da espressioni semplici e dirette di cui gli studenti abbiano appreso il pieno significato. Se l’impressione che se ne ricava è di un’efficienza militaresca non si è lontani dal vero, ma va detto che Lemov non pretende un’obbedienza cieca, bensì una ragionata e consapevole -per non dire entusiastica. In alcuni casi le tecniche proposte sembrano ricordare i motivazionali aziendali, altre volte sono “trucchi” ricchi di buon senso ed evidentemente sviluppati da insegnanti preparati con esperienza sul campo. Altre volte ancora le attività appaiono troppo parcellizzate e la routine tanto stringente da non lasciare molta libertà di “scoperta” o di “indagine” agli studenti, ma i consigli di Lemov non sono una bibbia né lui pretende che siano presi come tale: ogni tecnica necessita adattamento. La mia personale impressione è che molte di queste tecniche siano perfette per il range di età delle nostre medie, anche come base per didattiche in seguito più adulte e più “libere”.

Per quanto riguarda le tecniche che sto trovando utili, la prima è quella di chiedere agli studenti di schematizzare tutto quello che leggiamo in classe mentre lo leggiamo, in modo che io possa controllare cosa stanno capendo i miei studenti rapidamente, passando tra i banchi. Questo si innesta bene sulla mia abitudine di far leggere in classe, in maniera silenziosa ed individuale, ampie parti del libro di testo, in modo da poter discutere le parti e i concetti più difficili insieme subito dopo. La seconda, non nuova, è di non chiedere mai agli studenti se hanno capito (risposta standard: “Sì”), ma di ripercorrere quanto è stato detto e fatto: questo rivela quanto e cosa è stato davvero capito. Infine, di buon senso è l’abitudine di pretendere che una risposta espressa in maniera mediocre venga riformulata finché non è compiutamente corretta.

E’ importante sottolineare che il libro di Lemov non è dedicato ad una specifica materia, ma che molte tecniche finiscono per avere a che fare con le materie umanistiche, dato che in molti casi si tratta di fare attività su come esporre, scrivere e analizzare testi o altri oggetti di studio. In questo senso il libro mostra un limite, forse inevitabile visto che comunque è di didattica “universale”: non c’è molta riflessione su cosa e come sia necessario studiare in letteratura (se in senso cronologico o per temi o in qualche altro modo ancora). Molte delle attività proposte da Lemov sono “cornici” in cui il materiale viene scelto dagli insegnanti, ma una riflessione sul “cosa”,che pure influisce sul “come”, non avrebbe guastato. Nota importante: Lemov è un fautore convinto della maggiore importanza dei “contenuti” rispetto ai “processi”, nella consapevolezza che se non c’è il primo, gli altri non possono andare bene.

C’è un punto poi  in ogni caso che non bisogna sottovalutare, il più importante ma anche quello più problematico: dal momento che gli studenti e le famiglie hanno diritto di aspettarsi il successo scolastico (che nelle Uncommon School è l’ammissione al college) e poiché questo dipende da un setting di classe delicato come quello di un macchinario ad alta precisione, i comportamenti dirompenti devono tendere a zero. La difficoltà di ottenere questo, nel libro, mi sembra piuttosto sottaciuta, ma se ne trova ampia descrizione in un libro di qualche anno fa di Elizabeth Green, “Building a better teacher”, in cui le Uncommon Schools e l’operato di Lemov sono analizzati attentamente (e favorevolmente): a forza di intervenire anche a fronte della minima infrazione (“no excuses” è un motto da prendere alla lettera), gli insegnanti delle Uncommon Schools erano diventati eccessivamente autoritari e i ragazzi irosamente ribelli. A fronte dei serissimi problemi determinati da questo eccesso (di sapore forse vagamente puritano), Lemov e i suoi insegnanti hanno rivisto le loro procedure e hanno introdotto dei correttivi -riscoprendo in maniera forse un po’ faticosa quel caro, vecchio buon senso la cui mancanza sembra essere la maggior virtù e il peggior difetto degli americani. Con questo Lemov ha ovviato a tassi di abbandono più alti dei nostri più scalcagnati professionali e ha rimesso in carreggiata i tassi di successo delle sue scuole, che ora vedono, negli ultimi cinque anni di corso, un tasso di abbandono complessivo del 9%. Non bassissimo, ma nemmeno disprezzabile, se si considera che le Uncommon Schools sono esplicitamente pensate per gli studenti più svantaggiati e provenienti da famiglie con bassi tassi di istruzione. Bisogna anche dire che probabilmente la buona fama delle Uncommon Schools fa sì che ne facciano richiesta studenti di famiglie povere ma motivate, ma la percentuale di ammissioni ai college rimangono lusinghiere. Manca in ogni caso, nel trionfante ottimismo che il libro comunica (e che è tanto più fastidioso perché il manuale non vende affatto fuffa, ma consigli preziosi), una seria riflessioni sui fallimenti e sui possibili limiti di questo approccio. Non a caso, i lati più problematici li ho dovuti ricavare dal libro di Elizabeth Green menzionato prima.

Nonostante l’ottimismo un po’ di maniera, il modello di Lemov merita di essere esportato da noi (magari depurato di certi eccessi), ma la struttura della scuola italiana pone degli ostacoli molto seri, forse insuperabili. L’attitudine richiesta e favorita da Lemov è per me assai condivisibile, ma richiede tempo, costanza e coerenza. Forse Lemov ignora quanto sia grande il privilegio che le scuole statunitensi hanno di prendere uno studente a sei anni e portarlo avanti fino a sedici, ma noi non possiamo evitare di notarlo -dolorosamente. Tutti gli insegnanti delle Uncommon Schools aderiscono all’approccio di Teach Like a Champion, in tutte le materie e per tutti i dieci anni, e i dirigenti sono molto attenti a seguire i loro insegnanti -assistendoli dove necessario. Questo permette agli insegnanti di coordinarsi, abbatte le perdite di tempo e rende molto più scorrevole lo sviluppo progressivo della didattica. Il nostro sistema, che tra i sei e i sedici anni vede un triplo turnover di materie e docenti (quadruplo se si aggiunge il triennio delle superiori dopo i 16 anni) è semplicemente distruttivo.

Anche la nostra maniera di valutare è distruttiva, perché ci costringe ad elaborare voti raccolti in maniera confusa ed in ogni caso autoreferenziali, con l’Esame di Stato che è metodologicamente traballante nella concezione e concretamente farsesco nella sua realizzazione. I test americani hanno grandi limiti, ma almeno definiscono un parametro esterno oggettivo che taglia le gambe a quelle penose contrattazioni sui voti che invece accompagnano costantemente la vita scolastica italiana.

Con quanto detto, credo di aver raccolto il grosso delle mie impressioni sul libro. Soltanto un’ultima considerazione, che lascio a mo’ di post scriptum.

Nel libro, di informatica , di strumenti mirabolanti o di complicate rivoluzioni informatiche e didattiche non si parla mai, se non per l’uso del proiettore di documenti,  che permette di condividere con la classe quanto fatto da ogni studente. Per il resto si lavora con carta, penna, dispense e appunti. E’ un sollievo grandissimo. Un sentito grazie a Lemov per questo.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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